Articoli di Leonardo Mureddu

La Storia e la Sardegna

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radici_nodoHo appena letto Passavamo sulla terra leggeri, l’ultimo romanzo del grande Sergio Atzeni, pubblicato postumo ormai più di vent’anni fa. Devo confessare che l’avevo tenuto, come si dice, in stand-by per qualche tempo, pensando che si trattasse di una storiella un po’ epica e melensa del popolo Sardo. E all’inizio mi pareva che andasse proprio così, quando parlava dei danzatori e dei primi colonizzatori delle coste. Ma pian piano ho capito dove voleva arrivare. Questo libro non è una storia, ma un invito a conoscerla, la Storia. È un atto d’accusa nei confronti di chi, compresi molti sardi, ha impedito ai sardi stessi di conoscere le proprie origini, le vicende che hanno formato le culture, le lingue, i caratteri che sono unici e complessi. E, pensando al vecchio adagio che vuole che la storia la scrivano sempre i vincitori, si capisce come mai nelle scuole sarde non sia mai stata introdotta la materia La nostra Storia, da affiancare alla Storia stentorea ed eclatante che tutti ci onoriamo di conoscere.

Proviamo a chiedere, in una di quelle interviste tipo “le iene”, a un sardo che esce dal mercato o da un centro commerciale se ha idea di chi fosse Nerone, Cavour, Garibaldi, Alessandro Magno. È probabile che molti rispondano correttamente: d’altra parte è dalle prime classi delle elementari che ci martellano con questi personaggi e le loro gesta. Proviamo ora a chiedere di Eleonora d’Arborea, di Giò Maria Angioy, degli Stamenti, dei Giudicati, dell’origine di Alghero. C’è da immaginare una risposta unica: “boh!”, forse con poche eccezioni. Ma non è colpa di chi “non si è informato”, è semplicemente una lacuna voluta dai programmi didattici, una parte della storia che non è mai entrata nei libri di scuola. E lo stesso vale sicuramente per le altre comunità italiane che sono state oggetto di conquista, basti pensare a tutte le “tribù” degli Appennini che furono sottomesse dalla Roma in espansione. Tutti hanno una propria storia da raccontare, tramandare, difendere. La Sardegna ancora di più, data la lontananza fisica e linguistica dalla cultura egemone.

Una possibile riforma illuminata della scuola dovrebbe inserire la “storia locale” come materia istituzionale a sé, privilegiando con una sorta di lente d’ingrandimento i fatti e le persone da cui discendiamo, di cui essere orgogliosi o di cui provare vergogna, e insegnarci, anche se proveniamo da altre regioni, il lungo cammino della civiltà della terra che ci ospita. Questo percorso lo si fa già a titolo sperimentale in alcune scuole, grazie all’impegno gratuito di insegnanti intelligenti e preparati, e i risultati sono sorprendenti, in termini di interesse e profitto, dato che si parla di noi stessi, dei nostri antenati, insomma della nostra storia, e diventiamo tutti un po’ custodi del tempo. (L.M.)

Il brano che segue è la pagina di Sergio Atzeni che ha dato origine a queste ovvie meditazioni.

I giudici vivevano nelle grotte. Non erano affatto di pelle nera, come potrebbe pensare chi credesse alla strana cucina savoiarda della verità storica. Non erano di pelle nera, non parevano affatto discendenti dei mauri. Erano irsuti, armati e coperti di pelli come quelli che avevano combattuto i romani. Lo storico savoiardo preferiva spezzare la storia del popolo che dalla notte del tempo occupa questa terra e negli ultimi venti secoli ha dovuto vedersela con ospiti di tante etnie che hanno preteso d’essere i padroni.

Forse lo storico savoiardo desiderava che lo zelo fosse notato in alto loco, così che qualcuno della capitale lo ripescasse, lo salvasse dall’isola insalubre e soprattutto dagli strani studenti che durante le lezioni lo guardavano fisso come fosse un cane con tre teste e fra loro parlavano sette dialetti diversi, uno dei quali pareva castigliano antico. Gli studenti non capivano una parola dell’italiano savoiardo, o fingevano di non capire, cafoni e maleducati. Uno studente, una bestia di Ierzu, tirò un calamaio, con mira perfetta, e colpì lo storico savoiardo proprio in mezzo alla fronte, lo storico barcollò, si impiastrò, balbettò. Dovette mandare l’abito a lavare. La bestia di Ierzu, Nino Lobina, fu espulso da tutte le università del regno e condannato a cinque anni di lavori forzati. A chi chiese il perché del gesto rispose: «Quel babbasone diceva soltanto tonterias».

Gli storici savoiardi tentavano di spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi; volevano dimostrare che quella sovranità era stata perduta più e più volte, fin da epoche antichissime; volevano dimostrare ch’eravamo “terra dell’impero”, era l’unico elemento che giustificasse, secondo una distorta concezione del diritto, l’usurpazione savoiarda del titolo di re di Sardegna.

Gli storici savoiardi volevano fare credere agli studenti sardi d’essere fenici o punici, mirmilloni o mauri. Non sardi. Per gli storici savoiardi era meglio che i sardi immaginassero di non esistere. Meglio pensassero di essere figli di una patria che non sapevano neppure dove fosse.

«In Barbaria, però, ci facevano nascere» disse Cosimo Saba, custode del tempo negli anni di Bacaredda. «In Mauritania, non a Alesia, non sul Reno. Negri ci facevano nascere, non bianchi».

«I Savoia sono diventati re grazie a un falso, incoronati da chi non aveva alcun potere di incoronarli, la loro regalità è falsa, come si vede bene dai loro atti» disse Giusto Lussu di Armungia, custode del tempo.

Con sistemi banditeschi i villaggi sui monti, indifferenti agli storici e alle leggi savoiarde, hanno conservato i più estesi demani dell’isola e d’Italia. Ancora oggi i monti dove si rifugiò Mir sono proprietà collettiva degli uomini sardi liberi che li abitano, organizzati in comuni.

La storia talvolta non è il campo della verità, disse Antonio Setzu.”

(Sergio Atzeni: Passavamo sulla terra leggeri, Mondadori 1996)

Gagarin

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Il sito Petitesondes.net  ha iniziato da qualche settimana la pubblicazione degli articoli del settimanale Epoca relativi alla cosiddetta “corsa allo spazio”: la folle gara che coinvolse le due superpotenze mondiali (Usa e Urss) in una sfida tecnologica unica nella storia. La posta in palio era il dominio delle orbite terrestri, il trofeo la stessa Luna. Sappiamo chi alla fine vinse quella gara, non sappiamo a quale prezzo. La missione Apollo 11 mise tutti a tacere nel luglio del 1969, mostrandoci impronte di scarponi americani sulla sottile polvere lunare.

1968-915-gagarin-mortoMa ci fu un periodo in cui a vincere erano i russi, con la loro tecnologia forse un po’ goffa e misteriosa, e con la cattiva stampa che li accompagnava da noi in Occidente: erano i Comunisti, erano il Pericolo, erano il Nemico del Mondo Libero. Ma quando il loro piccolo Sputnik cominciò a girare intorno alla Terra col suo bip-bip che i radioamatori ricevevano con grande emozione, e quando pochi anni dopo fu la volta del primo astronauta Yuri Gagarin, allora si stette tutti col naso per aria, e il giovane cosmonauta divenne un eroe, tanto da far nascere migliaia e migliaia di piccoli Yuri nelle famiglie di tutto il mondo. Era la primavera del 1961.

Yuri Gagarin era l’uomo dai nervi d’acciaio, quello che la notte prima della missione dormì saporitamente, che aveva 60 pulsazioni al minuto anche al decollo, l’uomo in grado di mantenere il controllo in qualunque situazione. Per questo, quando pochi anni dopo (era sempre primavera, ma del 1968) precipitò con il suo MIG-15 in un banale volo di addestramento, vollero trasformare anche quell’impresa in un gesto eroico, raccontando che il pilota Gagarin non aveva voluto abbandonare il jet che precipitava per essere certo che non piombasse su un centro abitato. E le foto che campeggiavano sui giornali erano quelle della moglie e delle figlie, avvolte nel dolore consapevole e dignitoso delle mogli e figlie dei soldati morti per difendere la patria. Un dolore che assolve, non condanna.

Tutti ancora ricordano Yuri Gagarin cosmonauta ventisettenne che dice alla radio: “da quassù la Terra è bellissima senza frontiere né confini”. Ma mai come in quel momento il mondo era diviso, e i confini erano invalicabili. Vi offriamo (grazie a PetitesOndes) l’articolo che apparve su Epoca in occasione della sciagura aerea. (L. M.)

Gagarin – L’ultimo appuntamento col cielo

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L’infido Giannettino

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giannettinoRecentemente mi son proposto di raccogliere e rileggere, da adulto, alcune opere di Collodi. Cominciando ovviamente da Pinocchio. Sulla “Storia di un burattino” sappiamo tutto e abbiamo a disposizione centinaia di edizioni. Poco da dire, fa parte del patrimonio mondiale della letteratura.

Ma Collodi non ha fatto solo quello, anzi Pinocchio è uno scritto tardivo. Ci sono altre opere.

Sorvolando su una gustosissima riscrittura di celebri fiabe da un’edizione francese (I racconti delle fate che consiglio a tutti), si incappa inevitabilmente nei romanzi a sfondo pedagogico.

Mi ricordo, quando ero bambino, mi regalarono un altro libro di Collodi: Minuzzolo. Lo avevo cominciato con grande entusiasmo ma mollato dopo poche decine di pagine: una raccolta pedante di nozioni di mitologia, storia romana e altre amenità edificanti, immerse nel racconto di una villeggiatura di quattro ragazzini. Avevo sette anni ma una buona capacità di discernimento e di autodifesa nei confronti delle lezioni mascherate.

L’ho ritrovato oggi nel web, riletto per curiosità (e anche per concludere una cosa che avevo cominciato a sette anni), e in effetti il giudizio si è un po’ addolcito: è vero che ci sono i pipponi pesanti di storia e botanica e le paternali di genitori e altri personaggi adulti, ma c’è anche allegria, piccole storie di campagna, qualche pennellata ironica qua e là. Insomma c’è Collodi.

Ma veniamo a Giannettino. Giannettino viene citato più volte nel Minuzzolo. Si tratta di un amichetto che, da ciò che si evince, è in viaggio altrove mentre la famiglia di Minuzzolo è in vacanza. Anzi, Minuzzolo comincia proprio dalla partenza del treno di Giannettino.

Vien voglia di saperne di più su questo strano intreccio di personaggi. Si scopre con facilità che Giannettino è il primo di una serie basata sull’educazione e i viaggi di un ragazzo che oggi verrebbe definito problematico. Si scopre anche che l’amico Minuzzolo non è altro che uno spin-off, un personaggio minore del Giannettino che assume il ruolo di protagonista in un libro tutto suo.

A questo punto mi son messo a cercare un’edizione online del Giannettino. Ne ho trovato una gratuita sul sito Usa Archive.org, ma si tratta della semplice traduzione OCR di un volume originale (20a edizione Bemporad, 1892) conservato dalla Columbia University su microfilm. Le foto delle pagine sono leggibili a schermo, ma se uno prova a scaricare l’ebook ottiene un pasticcio sul quale c’è molto da lavorare per ricostruire il testo originale. Continuo a cercare. Ecco, per fortuna, l’ebook in formato Epub in vendita a pochi euro. Si tratta di un’edizione curata dall’editore italiano Landscape Books nel 2015. È in vendita sui principali siti online. Benissimo, lo acquisto lo scarico e comincio subito a leggerlo. I crediti riportano a un’edizione Carroccio del 1941. Leggo.

Le prime pagine scorrono più o meno come previsto: viene presentato il ragazzo, scolaro svogliato, figlio capriccioso e disordinato, insomma un monello. Entra subito in ballo un secondo personaggio, il dottor Boccadoro, uomo saggio e anziano che saprà come prenderlo e trasformarlo in una persona perbene. Iniziano subito anche le lezioni di igiene personale, di comportamento civile e insomma tutte quelle cose pedanti che hanno lo scopo di trasformare questa lettura in un testo scolastico. Vado avanti, tenendo presente la data (1877) in cui è stato scritto, e immaginandomi la vita di allora. Ma qualcosa qua e là non mi torna perfettamente. Certe affermazioni mi sembrano vagamente anacronistiche, ma evidentemente mi sbaglio io: questo è un romanzo di Collodi scritto nell’ottocento.

Finché non si arriva al capitolo II dove improvvisamente compare il cinematografo. Come il cinematografo? ma non era un’invenzione della fine dell’Ottocento? Mah, evidentemente l’autore ha inserito qualcosa in un’edizione successiva alla prima. D’altra parte, forse mi sbaglio io, il cinematografo può essere stato presentato qualche anno prima, con Collodi ancora vivo. Mah.

Continuo, e finalmente incontro uno scoglio vero sul quale mi incaglio. Non solo mi incaglio, ma anche mi inca…, perché improvvisamente appare Mussolini. Che ci fa Mussolini in un romanzo di Collodi? Eccolo: «La capitale è la prima città del regno. Nella capitale risiedono il Re Imperatore, Benito Mussolini, Duce d’Italia, i Ministri e le Direzioni generali di tutti gli Uffici dello Stato.»

Ma allora cosa ho letto finora? Riguardo con attenzione copertina, frontespizio, crediti, note di edizione, presentazione dell’opera. Nessun riferimento a un rimaneggiamento, nessun cenno al fatto che si sia presentato e venduto come opera di Collodi un pastrocchio infarcito di propaganda fascista. Evidentemente l’edizione del ’41 utilizzata come testo di partenza aveva subito le purghe del Ministero, e nessuno se ne è accorto, ossia nessuno ha letto quel libro che si stava per ripubblicare e commercializzare.  Ottima operazione, caro editore. Immagino che nessun redattore italiano avrebbe potuto lasciar passare questo testo, quindi suppongo che sia vero ciò che si dice, cioè che gli ebook vengono fatti preparare da ditte specializzate che stanno in qualche remoto Paese orientale e curano tutto, dalla digitalizzazione alla correzione del testo. Poi l’editore ci mette il suo copyright. Vorrei indietro i miei due euro ma gli ebook purtroppo non si possono restituire.

Per togliermi questo sapore amaro di un Giannettino monello, infido, e per giunta fascista dovrò ritornare all’edizione americana su microfilm, lì almeno nessuno ci ha messo le mani ancora, e infatti al posto del cinematografo c’è la più romantica lanterna magica. (L. M.)

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I due padri di Pinocchio

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collodiDovendo scegliere tra i suoi due padri forse Pinocchio avrebbe qualche difficoltà, tra quello libresco che conosciamo, il vecchio falegname povero ma onesto, e quello umano, uno scrittore ugualmente squattrinato, ma forse un po’ più spregiudicato e per giunta, giocatore d’azzardo. Che la vita del burattino sia dipesa per tre anni da questo individuo geniale ma inaffidabile, e che poi alla fine se la sia cavata egregiamente come sappiamo, è stata veramente una grande fortuna. Sembrerebbe infatti che l’autore di tanti libri edificanti, da Giannettino a Minuzzolo, ex patriota mazziniano, fosse un uomo irrequieto, dalle fortune alterne e, come tanti scrittori, sempre a caccia di un buon ingaggio per sbarcare il lunario. L’occasione che fece nascere Pinocchio fu l’uscita del primo numero del Giornale per i bambini, supplemento domenicale del Fanfulla. Ecco la storia, tratta da un articolo di Marino Parenti in occasione del cinquantenario della morte di Collodi (“Sapere”, Vol. 11, 1940, p. 48-segg.):

 “S’era sul finire della primavera del 1881. Ferdinando Martini preparando, con l’aiuto di Guido Biagi, l’uscita del Giornale per i Bambini, cercava di accaparrarsi la collaborazione delle migliori penne dell’epoca: e fra queste di Carlo Collodi. Particolarmente insistente era stato il Biagi, che ben conosceva i frequenti disagi economici dello scrittore fiorentino; ma non gli riusciva di ottenere risposta, tanto pigro e ribelle era il Collodi, tormentato dall’invincibile vizio del gioco.

Fu proprio in seguito ad una nottataccia di sfortuna più cocciuta del solito che questi si decise a trar profitto dalle proposte degli amici, scrivendo quattro cartelle d’una Storia di un burattino.

Al Biagi le accompagnava poi con poche righe, tanto laconiche quanto espressive: «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare: ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venir voglia di continuare».

[In quella prima puntata] il racconto non andava oltre la litigata di Geppetto e Mastr’Antonio nella quale il primo accenna appena al proposito di fabbricarsi un «burattino meraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino» (qui sembra proprio Collodi che parla [n.d.r.]).

La collaborazione dovette, senza dubbio alcuno, esser generosamente retribuita dal Martini se il Collodi, nella seconda puntata, decise di impegnarsi a fondo mettendo subito Geppetto di fronte al nome da attribuire al suo burattino: «Che nome gli metterò? Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna».

Ma il Collodi non poteva ancora valutarne il successo. Così le puntate seguivano un pochino gli alti e bassi della sua borsa; e quando all’alba, uscendo dalla bisca di Palazzo Davanzati, sentiva tintinnare qualche soldo nelle saccocce, dava una scrollata di spalle; e di pigliar la penna in mano non se ne parlava se non quando si sentiva più leggero.

Un periodo di fortuna dovette infatti seguire alle prime puntate poiché per due numeri di Pinocchio non se ne parlò più e i bimbi, che già si affezionavano al loro personaggio, dovettero attendere tre settimane prima di far la conoscenza col grillo parlante e di piangere sulle povere estremità del burattino, che s’era addormentato con i piedi nel caldano.

Da allora il racconto procede irregolarmente, a sbalzi, e i brani successivi appaiono nei numeri 7, 10, 11, 16 e 17; il quale ultimo, uscito il 27 ottobre del 1881, lasciava i giovani lettori nell’incertezza che Pinocchio potesse essere raggiunto dai briganti: «E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accorse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati».

Il punto era uno dei meno indicati per una lunga sospensione e i piccoli si tormentavano sulla sorte del povero burattino; e tempestavano di lettere la direzione, che le girava all’autore. Il quale, in tutt’altre faccende affaccendato, parve commuoversi per un momento a quelle tenere voci desolate; e il Martini, rassicurava i lettori nel numero del 10 dicembre: «Il signor C. Collodi mi scrive che il suo amico Pinocchio è sempre vivo, e che sul conto suo potrà raccontarvene ancora delle belline. Era naturale: un burattino, un coso di legno come Pinocchio ha le ossa dure, e non è tanto facile mandarlo all’altro mondo. Dunque i nostri lettori sono avvisati: Presto presto cominceremo la seconda parte della Storia di un burattino intitolata ‘Le Avventure di Pinocchio’».

 Ma fu un fuoco di paglia; e prima che la «bella bambina dai capelli turchini» intervenisse con la sua nota di dolcezza, si dovette aspettare fino al 16 febbraio del 1882, col n. 7 del nuovo anno.

E ancora un colpo mancino della sfortuna costringe il Collodi a piegar la testa sui fogli; e tale colpo fu, che per sei settimane non si ebbero interruzioni. Per ricollegarsi alle ormai lontane puntate, e per giustificarsi anche, il Collodi prima di riprendere il discorso, pose un Preludio, animato da una iniziale figurata nella quale Pinocchio penzola impiccato da un T a mo’ di forca, che anticipa la triste ventura narrata nel capitolo che segue. Dice il Preludio: «Tutti quei bambini piccoli e grandi (dico così, perché dei bambini, in questo mondo ce ne sono di tutte le stature) ripeto, dunque, tutti quei bambini piccoli e grandi che volessero per caso leggere le Avventure di Pinocchio, faranno bene a ridare un’occhiata all’ultimo capitolo della Storia di un burattino uscito nel numero 17 di questo stesso giornale, 27 ottobre 1881. Lettore avvisato, mezzo salvato».

Alla fine di marzo vi fu una nuova interruzione che costrinse i lettori a saltare di pie’ pari tutto il mese di aprile prima di poter riprendere la lettura. Poi le puntate si trascinano ancora per sei settimane, fino al n. 22 del 1° giugno 1882.

Ma il Collodi non ne ha più voglia; forse pensava di smetterla e di abbandonare giornale e burattino; forse la lotta interna fra la voglia di metter finalmente la testa a partito e il fascino del gioco e della vita notturna, lo estenuava, gli toglieva la possibilità di affezionarsi a quella sua creatura, che pur gli aveva dato qualche soddisfazione e che doveva riservargliene di grandissime.

Forse era soltanto un senso di ribellione ad ogni vincolo di scadenza, com’era sempre stato ribelle, da impiegato di prefettura, agli orari e alle gerarchie.

Un bel giorno, fra le numerose lettere che gli pervenivano, una ne giunse al Collodi di un bimbo romano che sembrava condensare il vivo desiderio di tutti i bimbi d’Italia:

«Gentilissimo signor Collodi, — scriveva — il suo Burattino, superiore a tutti i burattini del mondo, perché oltre a divertire istruisce, ci ha messo in uzzolo di sentire la continuazione senza lunghi intervalli. La prego adunque, anche a nome del babbo e della mamma e dei miei compagni di scuola, a scrivere più spesso ed a far sì che il Pinocchio trovi in ogni numero del nostro giornale il posto riservato che si merita».

Il Collodi ebbe evidentemente rimorso di aver sollevato tanto entusiastico interesse in quelle piccole anime ingenue, senza soddisfare fino in fondo la loro legittima curiosità; e ripresa in mano la penna volò d’un fiato verso la trionfale conclusione: nel numero 4 dell’anno III, Pinocchio, diventato bambino, chiederà al padre la ragione di quel cambiamento per averne da Geppetto, quasi una morale, quella saggia attestazione che «quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie».

Qualche mese dopo l’editore Paggi faceva rinascere Pinocchio in volume e il pittore Mazzanti, riprendendo la figura appena accennata dall’anonimo disegnatore del Giornale per i bambini dava al burattino la sua fisionomia definitiva: quella che nessun illustratore, da allora in poi, ha più avuto il coraggio di modificare, da Chiostri, a Mussino, ai Cavalieri, a tanti e tanti altri ancora.”

(L.M. 04/17)

Le metamorfosi di un burattino

Pinocchio e Geppetto come sarebbero dovuti apparire nel film rimasto incompiuto

Nella primavera del 1940, pochi mesi prima che l’Italia intervenisse sciaguratamente nella seconda guerra Mondiale, si parlava di Pinocchio. Se ne parlava con una certa indignazione, dato che Walt Disney aveva preceduto tutti, compreso un gruppo di animatori italiani, creando il “suo” Pinocchio liberamente basato sul soggetto di Collodi, e disegnato come un piccolo pupazzo dalle linee morbide e aggraziate, ben lontano dall’immagine che se ne aveva avuto fino ad allora, e quel che è peggio, pure elegante, espressivo e ben vestito. Era questo che faceva indignare gli italiani, che questa immagine potesse cancellare la memoria e la fantasia del “vero” Pinocchio.

Il Pinocchio "classico", creato da Enrico Mazzanti per la prima edizione del 1883

Il Pinocchio “classico”, creato da Enrico Mazzanti per la prima edizione del 1883

Ecco cosa ne dice la rivista “Sapere”, autorevole periodico di divulgazione (n. 11/1940):

All’alba di quest’anno 1940, nel quale ricorrerà il cinquantenario della morte di Carlo Collodi, giungono in Italia i primi saggi del cartone animato che Walt Disney sta ultimando intorno a Pinocchio. Per quanto favorevole possa essere il giudizio sull’arte del cineasta d’oltre oceano, non vi sarà un solo italiano capace di frenare un senso di sorpresa e disappunto davanti alle sembianze attribuite al nostro Pinocchio. Egli stesso, vedendosi nel nuovo aspetto, invertirebbe certo la gioia conclusiva della sua vita libresca, per esclamare tristemente: Come son buffo, or che ritorno burattino!

Quali che siano le ragioni, se ragioni vi furono, pel mutamento, chi potrà far dimenticare a noi italiani quel caro nasone (« era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per esser acchiappato dai carabinieri», lo ricordate? E infatti « il carabiniere, senza punto muoversi lo acciuffò pulitamente per il naso ») che ha dato tanta serenità agli anni della nostra infanzia? E il bianco cappelluccio puntuto, e il vestitino di carta fiorita, e le scarpe di scorza d’albero, solo misero abbigliamento consentito alle povere tasche di Geppetto, sempre senza un quattrino?

Il Pinocchio di Disney è figlio per lo meno di un « re della pialla » che non ha bisogno di artifizi e di intraprendenze per vestire la sua prole. Non berrettini di midolla di pane, dunque; ma feltri morbidi e nastri di velluto: non carta sdruscita. ma panni ritorti; non scorze d’albero, ma scarpe scamosciate.

Probabilmente, il nuovo preteso Pinocchio sarà altrettanto lontano anche nello spirito dal nostro burattino, e sarebbe stato meglio forse che Disney, pur togliendo qualche spunto dal capolavoro collodiano. avesse attribuito al suo protagonista uno dei tanti nomi in « immy » o in « illy », di cui è ricchissima 1′ onomastica americana.

Prima apparizione di Pinocchio, impiccato a un capolettera sul "Giornale per i bambini" nel 1882

Prima apparizione di Pinocchio, impiccato da un disegnatore anonimo a una “T” capolettera sul “Giornale per i bambini”, febbraio 1882

Certo, l’Italia fascista ed arruffona non poteva nulla contro il colosso Disney, neppure denunciarlo per violazione del diritto d’autore, dato che i furbi americani avevano aspettato pulitamente i cinquant’anni dalla morte dell’autore per lavorare sul soggetto, e comunque si erano procurati tutte le licenze. Poterono solo millantare un “noi c’eravamo quasi”, riferendosi a un tentativo abortito pochi anni prima dalla giovane CAIR (Cartoni Animati Italiani Roma). Questa era stata incaricata di creare un lungometraggio proprio per contrastare lo strapotere straniero (eravamo in autarchia) ma dopo un inizio promettente era stata lasciata senza finanziamenti e con mezzi da dilettanti, come testimonierà Mameli Barbara, uno dei disegnatori:

I registri per sovrapporre i disegni erano costituiti da due semplici pezzi di legno… i disegni venivano ripresi uno a uno da una comune macchina fotografica, in modo molto impreciso… Ogni tanto portavamo qualche minuto in pellicola ma ballava tutto.” (fonte Wikipedia)

Figuriamoci con questi mezzi costruire un film di 150.000 fotogrammi della durata di 100 minuti. Di quell’esperienza restano tanti disegni, in realtà molto belli e suggestivi, e il ricordo di tante polemiche e spinte volontaristiche.

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Disegno per il lungometraggio italiano del 1936

Di fatto, nell’immaginario collettivo dei bambini di tutto il mondo, dal 1940 il personaggio Pinocchio è quello addolcito dai filtri politically correct dell’animazione made in Usa, dove tutti sono simpatici e nessuno muore, neppure il Grillo parlante, che anzi segue Pinocchio in tutte le sua avventure… (L.M.)

pinocchio-disneyAggiornamento bibliografico: recentemente abbiamo recuperato un altro articolo di “Sapere” (n. 23 del 1935) nel quale viene descritto il film a cartone animato “di prossima uscita sugli schermi italiani”: Pinocchio allo schermo (pdf, 2 pagine) nel quale sono riprodotte alcune tavole e viene descritta la tecnica di animazione. Ecco Pinocchio e Geppetto come sarebbero dovuti apparire nel cartoon:

Pinocchio e Geppetto come sarebbero dovuti apparire nel film rimasto incompiuto

Pinocchio e Geppetto come sarebbero dovuti apparire nel film rimasto incompiuto

 

Hoc est sermone Latino

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Recentemente un lettore ci ha fatto una strana richiesta: rintracciare una pubblicità automobilistica su un numero di Epoca degli anni ’60. La marca è Audi, la stranezza è che quella pubblicità è in latino. Ringraziamo Giulio Galletti per la tenacia con cui ha insistito facendoci avere vari indizi e raccontandoci la sua testimonianza: “il nostro straordinario professore di italiano e latino (frequentavo il liceo scientifico) non si lasciò scappare l’occasione per utilizzarla per una brillante lezione di latino, molto motivante per gli studenti…”. Alla fine è stato lo stesso Galletti a fornirci le coordinate esatte per rintracciare il trafiletto pubblicitario in una delle prime pagine di un numero del marzo 1966. Quasi una sorta di sfida culturale, con relativa traduzione in fondo al fascicolo.

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Una pubblicità “sussurrata”, nella quale si parla di trazione anteriore, di cavalli vapore, di chilometri e altre cose tecniche usando la grammatica e il vocabolario di Cicerone: certo non alla portata di tutti, come il prezzo della vettura d’altronde, indicato in fondo, in fondo. Fa pensare a come si siano rovesciate oggi le cose: la pubblicità dagli anni ’80 tende a voler sedurre, ti induce a desiderare e acquistare uno status non un auto e non sussurra ma urla, e non certo in latino, e per prima cosa ti spara delle cifre per convincerti che non esistono auto che non siano alla portata di tutti, anche le mitiche Audi: “Tua da xxx euro al mese!”, sottolineando con quel “Tua” che sei proprio tu il futuro proprietario (o affittuario) di quel gioiello.

Troppo elitaria la prima? Troppo democratica la seconda? Si sa, la comunicazione pubblicitaria lavora per eccessi. (L.M.)

 Ecco la traduzione (fai clic qui per scaricare l’estratto in pdf stampabile):

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Musica da sfogliare

Belle-of-ManilaC’è stato un periodo nel quale la musica non si vendeva confezionata e pronta da ascoltare, ma veniva pubblicata sotto forma di spartiti, fogli musicali, quaderni, raccolte. Era compito del lettore eseguirla, con la voce e l’accompagnamento di un  pianoforte o in piccole orchestre domestiche. E, come oggi guardiamo la copertina dei nostri cd o dei dischi in vinile per avere un’immagine da legare ai nostri ascolti, così allora quei fogli musicali erano rilegati in copertine evocative, pittoriche, avventurose o romantiche, esotiche o drammatiche a seconda del genere musicale. Vi invitiamo a sfogliare una corposa raccolta di immagini di queste copertine pubblicate da Digital Collections in America alla fine dell’Ottocento:

Sheet Music

Avete mai letto Pinocchio?

Pinocchio-Sergio
Pinocchio-Sergio

Pinocchio visto da “Sergio” (Romano Rizzato)

Quanti italiani hanno letto “Le avventure di Pinocchio”?

Probabilmente molti meno di quello che si possa supporre. Eppure è il secondo libro più diffuso al mondo dopo la Bibbia. Il fatto è che tutti lo conoscono per averlo visto al cinema o in  tv, o per averne letto un riassunto o qualche brano rivisitato, o per i mille luoghi comuni che lo accompagnano. Un po’ come si fa con la propria città. La si conosce per il fatto di abitarla, non si va in giro con la guida in mano per scoprirne la storia e le bellezze, la si dà per scontata e così si finisce col conoscerla meno di un visitatore occasionale. Ecco, noi “abitiamo” Pinocchio, il suo villaggio, la sua osteria, il campo dei miracoli e infine il pesce-cane da cui viene divorato e poi risputato salvo e finalmente saggio. Lo sappiamo e basta, che senso avrebbe leggerlo?

La notizia di questi giorni è che Matteo Garrone comincerà presto a girare una sua versione di Pinocchio, nella quale Toni Servillo sarà Geppetto. Altro non si sa per ora, ma è interessante notare quanti registi e quanti sceneggiatori si sono cimentati nella loro personale lettura della fiaba, dopo esserne stati affascinati.

Molti di noi hanno due capisaldi: il cartone animato di Disney del 1940, visto e rivisto al cinema e poi in videocassetta coi nostri figli, con le canzoncine e le danze e quei meravigliosi movimenti fluidi del disegno manuale, e la miniserie di Comencini, un vero capolavoro inarrivabile prodotto dalla Rai negli anni ’70, realizzato a colori ma trasmesso in bianco e nero perché la tv a colori non c’era ancora. Il Geppetto di allora era Nino Manfredi, la fata turchina Gina Lollobrigida, e il piccolo bravissimo Andrea Balestri si dava il cambio con un pupazzo di legno nella parte di Pinocchio. E poi ci proveranno altri, tra cui i toscani Nuti e Benigni, con risultati discutibili.

Forse non tutti sanno che il grande Paolo Poli, anch’esso toscano, interpretò Pinocchio in una deliziosa lettura a più voci della fiaba per la serie “Fiabe Sonore” dei Fratelli Fabbri. Chi ebbe la fortuna di essere bambino o ragazzo intorno al 1968 poteva sfogliare la dispensa settimanale con le illustrazioni di Sergio, mentre ascoltava dal disco le voci di tutti i personaggi. Erano 21 dispense e altrettanti dischi a 45 giri, e in seguito uscì in cassette. Non so se esista anche in cd, ma è un’esperienza consigliabile.

Tornando alla domanda iniziale, quanti l’hanno letto, è difficile rispondere, ma una cosa è certa: Pinocchio andrebbe letto, e proprio nella sua versione originale col testo di Collodi che non merita di essere semplificato, riassunto, straziato in tentativi di rimodernamento. Dentro Pinocchio c’è un mondo nel quale gli esseri umani non si stupiscono di incontrare per strada un burattino che scappa o che va a scuola, nel quale nessuno è veramente cattivo e neppure veramente buono (a parte Geppetto), e dove l’ironia si insinua anche nelle pagine più drammatiche.

Non sappiamo ancora cosa farà Garrone, e siamo impazienti di vederlo. Chissà che ancora una volta non ci venga da dire, all’uscita dal cinema: “bellissimo ma il libro è meglio”.

Per concludere vi offriamo un ascolto storico: i primi minuti della “Fiaba sonora” con Mastro Ciliegia che per primo si imbatte in uno strano pezzo di legno…

Estratto dal primo disco di “Pinocchio”

E qui potete leggere il testo ufficiale della fiaba in pdf (magari da seguire durante l’ascolto):

Le avventure di Pinocchio

Frontalieri di oggi e di ieri

Valigie-spago

Valigie-spago

Il Canton Ticino ha votato, in un recente sondaggio, sul principio “prima i nostri”, ossia se vanno privilegiati nelle assunzioni i lavoratori residenti rispetto ai “frontalieri” italiani. Sono circa 60.000 i lavoratori italiani che ogni giorno si recano in Svizzera, con incarichi svariati. Certo non sono più i muratori bruni e irsuti che negli anni ’50 e ’60 costruivano letteralmente le città svizzere e si cuocevano nelle fornaci insieme ai laterizi.

Casualmente mi è capitato per le mani un servizio di Epoca del 1960 dove vengono denunciate le condizioni dei lavoratori italiani in Svizzera, che allora non erano frontalieri ma “stagionali”. Alcune foto mostrano le baracche e le latrine, le arcinote valigie legate con lo spago e le scritte “affittasi camera esclusi gli italiani”. Si parla anche del “dumping” salariale, quell’accordo non scritto per cui i lavoratori italiani possono permettersi stipendi più bassi e si adattano a condizioni vessatorie. In altre parole: “gli italiani non fanno storie”.

Oggi tutto è cambiato rispetto ad allora, si viaggia in macchina o in treno ma senza le valigie di cartone, non ci sono più i dormitori gestiti dagli affittacamere senza scrupoli. Restano i problemi del dumping salariale e dell’intolleranza. Resta la legge del mercato, che fa preferire agli imprenditori svizzeri lavoratori che “non fanno storie”, guadagnano meno dei locali ma possono permetterselo, dato che spendono i salari in un Paese con un costo della vita minore.

Dalla ricca frontiera italo-svizzera di tanti anni fa, alla misera frontiera italo-africana di oggi, il passo è breve nonostante il tempo e i chilometri. Ecco un altro servizio con baracche e latrine puzzolenti, ecco un altro mondo di imprenditori senza scrupoli che sfruttano persone che adesso non sono “frontalieri” e neppure “stagionali”, ma “richiedenti asilo” e comunque “non fanno storie” per qualunque lavoro umile, dalla raccolta dei pomodori e atri lavori stagionali fino alla prostituzione. Nel numero 37 de l’Espresso (11/09/16) Fabrizio Gatti ci porta in un mondo rovesciato rispetto a quello di sopra, ma identico. E anche in questo caso, i Governi chiudono gli occhi o guardano altrove. (L.M.)

Cara Italia

Gennaio-Antelami

TestataTra la fine del 1974 e i primi mesi del 1975 Epoca pubblica una serie di inserti da raccogliere in volume. Sedici in tutto, sono altrettante monografie su alcune regioni italiane, e portano la firma di grandi autori, giornalisti, scrittori, ognuno per la propria regione. Le foto per tutti gli inserti sono di Mario de Biasi. Su richiesta di un lettore abbiamo digitalizzato gli inserti e li mettiamo a disposizione di tutti, come sempre.

Abruzzo – Ignazio Silone
Campania – Carlo Bernari
Emilia – Enzo Biagi
Lazio – Ercole Patti
Liguria – Vittorio G. Rossi
Lombardia – Arrigo Benedetti
Marche – Libero Bigiaretti
Piemonte – Mario Soldati
Puglia – Raffaele Carrieri
Sardegna – Giuseppe Dessì
Sicilia – Leonardo Sciascia
Toscana – Mario Tobino
Veneto – Goffredo Parise
Basilicata – Giovanni Russo
Calabria – Saverio Strati
Umbria – Cesare Brandi

Per poter ammirare le foto a doppia pagina di Mario de Biasi consigliamo di scaricare gli inserti nel proprio computer e di aprirli con una versione recente di Acrobat Reader. Il team di Xedizioni.

Italia-Libia, una storia senza fine

Almanacco-1912-01

Almanacco-1912-01Almanacco-1912L’Almanacco Italiano del 1912 dà ampio risalto nel frontespizio alla conquista italiana della Tripolitania e della Cirenaica, le due regioni principali che compongono la Libia. Da lì parte la storia di un rapporto dapprima coloniale fino alla guerra, poi di collaborazione e convivenza amichevole, in seguito di odio e persecuzione (con l’avvento di Geddafi al potere), e poi ancora di commercio e interessi petroliferi, fino ai fatti recenti dell’abbattimento della dittatura e dell’inizio della guerra civile.

Dato che negli anni abbiamo raccolto articoli ed estratti sull’argomento, li mettiamo tutti qui a disposizione dei lettori, a partire proprio dalla commemorazione del primo anniversario della conquista dei territori

 

La conquista italiana in Tripolitania e Cirenaica (Almanacco Italiano 1912, Bemporad)

Almanacco-1912-part


Dal settimanale Epoca, su richiesta di alcuni discendenti dei coloni italiani, riportiamo alcuni estratti che riguardano il periodo dell’espulsione dei 50.000 italiani, che verranno accolti in Italia come profughi:

1970-1019 (Gli italiani fuggono dalla Libia)

1970-1036 (Libia espelle gli italiani)

1970-1042 (Libia trionfo di Gheddafi)

1970-1043 (Libia: il ricatto del petrolio)

1970-1044 (Diamo a Geddafi 300 miliardi all’anno)

 

Cinque quaderni scritti a mano

GioeNena1

GioeNena1

Quando mi sono arrivati in mano i quadernoni di Elena Cillocu coi diari copiati “in bella” su fogli a righe di quinta, ho pensato che non valesse la pena leggerli né lavorarci sopra. Intanto non è facile leggere un manoscritto, per quanto redatto con una calligrafia tonda e ferma: non siamo più abituati alla lettura del corsivo. Poi, trattandosi di una novantenne che scriveva dei suoi ricordi di ragazza, mi aspettavo una prosa enfatica e nostalgica. Insomma, i quaderni restavano lì in una vecchia borsa da spiaggia con cui erano arrivati. Poi per fortuna una cara amica incuriosita dalla lettura di alcune pagine si è offerta di trascriverli, e così finalmente mi son trovato con un file su cui lavorare.

Già sapevo di cosa si trattava: durante la guerra, subito dopo i bombardamenti su Cagliari, la popolazione delle città dovette sfollare verso i paesi dell’interno. Nena, la protagonista di questo diario, allora non ancora ventenne, si trova a dover seguire la ditta di carburanti per cui lavora, mentre il resto della famiglia si trasferisce altrove. Questa separazione, unita all’abbandono delle abitudini cittadine e al doloroso distacco dall’innamorato sono lo sfondo dei diari di Nena. Su questo tema si innestano però nuove conoscenze, amicizie che diventano profonde, esperienze e avventure di vita nella Sardegna degli anni ’40. La lettura è piacevole, spesso ironica. Sono notevoli le pagine che trattano della visita di Nena in una Cagliari deserta e stralunata, durante la quale per l’ultima volta ripercorre i luoghi dell’infanzia prima di abbandonarli per sempre. Nella casa di alcuni zii evidentemente ricchi, con tante stanze c’è un giardino con fiori e alberi da frutto e una vasca: “…nella vasca del giardino avevo studiato la metamorfosi delle zanzare e quando ero piccolina e le vedevo prendere il volo uscendo dall’acqua, battevo le mani tutta felice.

È vero che ci sono migliaia di libri, biografie, diari che trattano di quel doloroso periodo della nostra storia. Ed è anche giusto che sia così. Questo di Nena però non è un semplice diario di guerra e di privazioni, è una vera opera letteraria, quasi un romanzo di formazione. Seguendo la narrazione si assiste a una specie di dissolvenza incrociata nel quale un mondo di ragazzina, di giochi e di primi amori si fa sempre più sfocato, mentre prende corpo un mondo di donna adulta, determinata a trovare il suo posto e a scegliere da chi farsi accompagnare. Tutto questo nei mesi che vanno dall’arrivo a Orroli e i successivi trasferimenti nuovamente verso il sud, fino al ritorno definitivo nella Cagliari liberata.

Abbiamo deciso di pubblicare i cinque diari in un volume intitolato semplicemente Nena (io avevo proposto di citare nel titolo la metamorfosi delle zanzare). Siamo certi che chiunque ne scorra le prime pagine si lascerà conquistare da questa lettura che parla anche di drammi ma con leggerezza e freschezza, forse un po’ estiva ma non per questo superficiale. (L.M.)

acquistabile dal nostro catalogo online

GioeNena

Gli occhi al cielo

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1966-831Siamo nel 1966, estate, esattamente cinquant’anni fa. Ci sono tanti motivi per guardare il cielo. Per limitarci a questioni non “spirituali”, uno dei motivi che fa correre un brivido sulla pelle di tutti è la cosiddetta “conquista dello spazio”, la corsa sfrenata a colpi di razzi vettori giganteschi e di tecnologie spinte alla follia, con lo scopo di vincere la gara del primo uomo sulla Luna, un sottoprodotto non troppo nocivo della guerra fredda. Nel 1966 l’acronimo “NASA” è ben noto a tutti, e la missione “Apollo” è ormai avviata con un enorme dispendio di pubblico denaro, per volere di Kennedy e dei suoi successori: sarà Nixon il fortunato testimone dello sbarco del 1969. Dal canto suo, l’Unione Sovietica svolge un suo programma ugualmente ambizioso e spettacolare, sebbene meno accessibile per i media mondiali.

Un altro motivo, più terrestre, che ci rende il cielo ormai familiare, è lo sviluppo sorprendente dell’aviazione civile, che trasforma in pochi anni il volo aereo nel mezzo di trasporto più comune per viaggi a media-lunga distanza. Ancora si costruiscono i grossi transatlantici – la “Michelangelo” ha preso servizio nel 1965 – ma si tratta ormai di mezzi sorpassati e lenti: nel 1966 un Jumbo Jet può portare in mezza giornata oltre cinquecento persone oltre Atlantico a prezzi ormai accessibili, anche se non proprio economici. Si vola tra Roma e Milano per evitare una giornata in treno o in auto, e l’aeroporto diventa un polo importante per ogni città, quasi come le stazioni del “teletrasporto” della fantascienza. Il progetto del “Concorde”, l’aereo ultrasonico franco-britannico, è proprio di questi anni (volerà nel 1969): porterà facoltosi passeggeri da Parigi a New York in tre ore e mezza, volando a “mach 2″, ossia al doppio della velocità del suono. Il Jet set non ha tempo da perdere: una follia tipica degli anni ’60, un inno allo spreco e al frastuono, in attesa dei ridimensionamenti dovuti alle crisi energetiche, agli allarmi ambientali e alla nascita dei voli low cost.

Infine, il 1966 è uno degli anni di maggior fioritura del fenomeno degli “UFO”: gli avvistamenti di oggetti volanti nei cieli del mondo. Sarà che a forza di guardare in su per altri motivi aumentano le probabilità di veder passare un disco volante, ma proprio in questi anni si comincia ad indagare in modo scientifico sul fenomeno. Le testimonianze di avvistamenti sono migliaia, con e senza fotografie, con e senza impronte sul terrreno, cerchi nel grano o tracce di metalli o carburanti “alieni”. Negli Stati Uniti sorgono delle agenzie private e pubbliche per vagliare le informazioni, la più nota delle quali, la NICAP (National Investigations Committee on Aerial Phienomena), mette in giro voci di manovre governative tese a nascondere le prove dei contatti alieni – per non allarmare la popolazione – il che fa ovviamente crescere l’allarme e la sfiducia, e dà fiato ai venditori di patacche. Di questo atteggiamento paghiamo ancora oggi le conseguenze, basti pensare al fenomeno delle “scie chimiche” che ancora fanno guardare in cielo e urlare al complotto, in modo ancora più efficiente oggi che c’è internet e tutti i telefoni sono dotati di telecamere…

Per celebrare questi cinquant’anni, pescando come sempre dall’inesauribile miniera della raccolta di “Epoca”, abbiamo preparato la versione digitale di un servizio in tre puntate (non proprio imparziale) del giornalista e scrittore Livio Caputo, allora trentenne. Lo trovate nella nuova pagina dedicata ai servizi di Epoca sugli UFO. (L.M.)

SEZIONE SPECIALE EPOCA – DISCHI VOLANTI

Fotografie dai grandi spazi

È difficile separare il ricordo di Walter Bonatti da quello delle sue fotografie. Ed è sorprendente ogni volta scoprire quanto quest’uomo e le sue avventure siano radicati nella memoria e nell’immaginario di un pubblico tanto differenziato per età e interessi.

Il successo di Bonatti, e questo suo durare e rinnovarsi, ha diverse spiegazioni. La più immediata, appunto, è che Walter ha conquistato più di una generazione e più di un pubblico. L’essere stato prima un alpinista di levatura mondiale, poi il fotoreporter-esploratore di un periodico di rilevanza europea, lo ha tenuto complessivamente “in scena” per quasi un trentennio, periodo al quale è seguita l’attività a tempo pieno di autore di libri e conferenziere, durata altrettanto (e lungo più di 50 anni, da quel fatidico 1954, si è peraltro dipanata la vicenda del K2, costellata di polemiche e colpi di scena)… (continua a leggere)

La generazione di Selezione

magia-stereofonia

magia-stereofonia

Subito dopo la guerra, in un periodo di quotidiani e settimanali in formato “lenzuolo”, ecco una piccola rivista quasi tascabile, stampata come un libretto col suo dorsino in brossura. Articoli brevi dai titoli evocativi, rubriche fisse affidate a personaggi che diventavano familiari, come la Nucci Cima delle “scoperte” casalinghe. Condimento ricco di pubblicità commerciale e propaganda politica non proprio occulte, americanismo, consumismo e anticomunismo, patriottismo ed elogio del modello capitalistico occidentale. Uomini che si facevano da soli (“una persona che non dimenticherò mai”), eroi del cielo e della finanza, grandi scoperte e innovazioni scientifiche e medico-chirurgiche. Infine c’era il “libro condensato”, un best seller ridotto a 25-30 pagine, per diffondere la cultura senza sforzo. È stata “Selezione dal Reader’s Digest”, da tutti chiamata semplicemente “Selezione”.

Un certo spirito complottista mi ha sempre portato a pensare che “Selezione” non sia stata una semplice operazione editoriale, ma che facesse parte di una precisa politica. Per entrare nel suo mondo – o lasciarla entrare nel tuo – ti bastava accettare un abbonamento in omaggio, e spesso questo arrivava come regalo di natale da parte di amici e parenti già abbonati, con la tecnica del regalo remunerativo: regalando un abbonamento godevi a tua volta di sconti per il tuo o per altri acquisti. E una volta messo il piede nella porta, era impossibile resistere alle mille tentazioni che arrivavano continuamente, per grandi, piccini, donne. C’era la sterminata produzione editoriale: enciclopedie legali, mediche, del giardinaggio, dei lavori femminili, del bricolage, atlanti; poi c’erano le opere discografiche, spesso in abbonamento anch’esse (“il disco del mese”), tutte di qualità, musica classica o leggera. Bastava leccare e incollare sulla cartolina d’ordine il “francobollo” relativo al disco scelto, dopo averlo staccato da un foglio perforato. Quelli che non venivano utilizzati per gli acquisti li davi ai bambini, che potevano giocarci o incollarli nei diari di scuola e sugli zainetti. Tutto, con il comodo sistema del pagamento rateale, un bollettino mensile di poche migliaia di lire e continuavi a vivere in quel mondo colorato e scintillante che tanto somigliava all’America.

Poi c’era la collana dei libri “condensati”, la “Selezione del Libro” a cui abbiamo già accennato, un vero capolavoro dell’editoria di massa. Ti abbonavi con un piccolo supplemento rispetto alla rivista, e ricevevi ogni mese un volume ben rilegato con copertina rigida. Sul dorso di ciascun volume erano impressi quattro-sei titoli di romanzi famosi, che trovavi all’interno ridotti all’essenziale. Moltissimi adolescenti di allora si sono fatti una cultura compressa ma sterminata, leggendo titoli come “Il buio oltre la siepe”, “Nessuno torna indietro”, “E le stelle stanno a guardare” e mille altri, quasi sempre provenienti dalla produzione angloamericana, tutti ridotti a meno di un centinaio di pagine ciascuno.

E infine c’era la tecnologia. “Selezione” fu la prima a introdurre in Italia, alla portata di tutti, il giradischi stereofonico. Veniva offerto “quasi” in omaggio, insieme a qualche imponente opera discografica, per esempio i corsi di lingue (altro settore dominante). Erano gli anni ’60, l’epoca del boom della produzione discografica mondiale, e la stereofonia era il valore aggiunto per i microsolco di classe. Quando il giradischi arrivava a casa, insieme ai cavi, agli altoparlanti destro e sinistro, al libretto di istruzioni per quella meraviglia tutta automatica ricevevi un disco: “Magìa della stereofonia” recitava il titolo. Tutta la famiglia si sedeva al centro del salotto, alla distanza giusta dagli altoparlanti, e sentiva per la prima volta passare il treno da sinistra a destra, e lo speaker passeggiare mentre parlava, e la pallina da ping pong che rimbalzava dall’una all’altra parte del tavolo, e tutti giravano la testa. (L.M.)

Vuoi ascoltare il disco dimostrativo? Eccolo: Magia della stereofonia (su Youtube)

 

Il quaderno di Bonatti alpinista

BONATTI_PREVIEWIMAGE3Qualche giorno fa abbiamo messo online una versione preliminare del DVD, contenente il piano completo dell’opera e alcuni articoli scaricabili e sfogliabili, seppure in risoluzione minore rispetto alla versione finale.

Intanto, mentre le sottoscrizioni proseguono, stiamo andando avanti con la preparazione del libro, ossia del “quaderno” che raccoglie le imprese di Bonatti alpinista dal K2 del 1954 all’ultima scalata del Grand Capucin, oltre vent’anni dopo. Sono resoconti di prima mano che si leggono con passione, e per questo abbiamo scelto un’impaginazione a colonne come l’originale di Epoca, le colonne hanno una lunghezza variabile verso la testa o il piede della pagina. Anche l’impaginazione oltre che con l’inserimento di alcune immagini sottolinea le imprese e rievoca i momenti spesso drammatici. Tutti gli articoli del quaderno sono comunque riprodotti nella loro completezza anche nel DVD.

Seguendo il link qua sotto puoi scaricare un piccolo saggio, giusto alcune pagine per renderti conto del lavoro.

Preview del quaderno

Se vuoi stamparlo e leggerlo comodamente, ecco lo stesso estratto organizzato su pagina singola.

Preview A4

Ti vogliamo ricordare che il crowdfunding ha lo scopo di contenere i costi di allestimento dell’opera, e che ogni sottoscrittore avrà diritto alla sua copia dell’opera (libro + DVD) al minor prezzo possibile. E, come sempre succede con le opere editoriali, il numero di copie stampate avrà un peso notevole su questo prezzo. Quindi ti invitiamo a sottoscrivere e a diffondere l’iniziativa presso associazioni, gruppi di appassionati, social network…

Per sottoscrivere e mantenerti aggiornato sullo svolgimento dell’iniziativa, visita la pagina del crowdfunding

Grazie davvero

il team di Xedizioni.

Creatività

pesciolino

pesciolinoNel suo blog “Nuovo e utile” Annamaria Testa, esperta in scrittura creativa, dedica una pagina in sei punti alla definizione della creatività, o meglio alle varie fasi e ai requisiti che accompagnano il processo creativo. La pagina contiene tra l’altro qualche famosa citazione (1 percent inspiration, 99 percent perspiration…) e rimanda ad altre letture, come una famosa conferenza di U. Eco sull’ars combinatoria.

Una lettura avvincente e istruttiva. Mi pare però che non tocchi un punto, a cui sono personalmente molto affezionato e che riguarda un particolare aspetto della creatività, quello che porta alla soluzione di problemi complessi o alla realizzazione di scoperte scientifiche.

Dormirci sopra

La soluzione di un problema complesso, di un “vero” problema intendo, è spesso un atto creativo. Certo servono talento, cultura, tecnica, intelligenza ed esperienza per combinare, organizzare, confrontare i dati, e poi ipotizzare, produrre modelli e metterli alla prova; inoltre servono la perseveranza e la volontà di risolvere il problema.

Ma certe volte tutto ciò non basta. Il vero passaggio creativo, quello che improvvisamente mostra la soluzione, è svincolato dalla nostra volontà. Nasce quando lasciamo il cervello libero, di esplorare catalogare distillare a modo suo. Quando ci svaghiamo e pensiamo ad altro, conversiamo con gli amici, facciamo sport, o meglio ancora quando dormiamo. Questo “dormirci sopra”, che ci viene raccomandato dal buon senso dei nostri anziani, mette in azione le abilità nascoste della mente: potremmo definirla un’elaborazione in background. Senza paletti, senza paura del ridicolo, senza neppure aver bisogno del linguaggio che ingabbia ogni pensiero cosciente, il cervello libero osa accostamenti proibiti, percorre strade apparentemente disperate, mischia memorie di fatti tra loro slegati, e alla fine produce delle idee e le conserva.

Ce ne accorgiamo solo il giorno dopo, quando ci riaccostiamo al problema “a mente fresca”: ecco che improvvisamente tutti gli ostacoli appaiono facilmente superabili, e la soluzione appare chiara, semplice, facilmente attuabile.

Nessuno di noi sa veramente come sia capitato, ma il nostro cervello ha raggiunto un’evoluzione impossibile da descrivere, impossibile da imitare o da delimitare. Ogni tanto bisogna lasciargli briglia sciolta, anche se non abbiamo idea di dove possa andare, e cosa possa portarci al ritorno. (P.P. A., illustrazione di Enrica)

 

Mani che si disegnano (una piccola lezione di fisica)

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m_c_escher_mani_che_si_disegnano_1948Chi non conosce il famoso quadro di M.C. Escher “Mani che si disegnano”: paradossale come tante altre opere di questo Maestro del ’900. La mano destra disegna la sinistra proprio mentre la sinistra sta disegnando la destra. Ci si chiede quale sia l’origine della scena, e dove possa portare; oppure si gode semplicemente l’assurdità del paradosso.

Forse però non tutti sanno che questo quadro è un’ottima rappresentazione di un principio fisico reale, su cui si basa concretamente la nostra vita e le nostre capacità di comunicazione. Bisogna immaginarlo per quello che è, ossia la rappresentazione di una scena “in divenire”. Ebbene, proprio su una scena “in divenire”, nella quale due forme di energia si creano l’una con l’altra scavalcandosi continuamente, si basa l’energia elettromagnetica, l’unica che non ha bisogno di alcun mezzo per propagarsi, anzi, si propaga benissimo nel vuoto.

Il principio è quello delle due mani di Escher, che in Fisica diventano due forme di energia: magnetica e elettrica. Le variazioni di un campo magnetico creano energia elettrica, le variazioni di un campo elettrico creano magnetismo. In altre parole, due campi di energia che si fondono tra loro alternandosi nel tempo e nello spazio creano una forma di energia nuova, che però non può stare ferma o essere raccolta in un barattolo: per esistere deve viaggiare, e deve farlo molto velocemente. Questa è l’energia elettromagnetica, ossia la luce con tutti i suoi colori, le onde radio, i raggi x e tutte le altre forme che compongono lo spettro, e sono le messaggere universali della conoscenza, e anche della bellezza.

E visto che il 2015 è stato dedicato dall’Unesco alla luce, che è quella parte dello spettro elettromagnetico che possiamo vedere, vorrei dedicarlo anche agli artisti, ai disegnatori, ai creatori di forme che sanno fare uso della luce per darci piacere, emozioni, conoscenza, bellezza, proprio come Escher. (P.P. Alberigi)

campo

 

Bastava la copertina

Walter Molino

Walter Molino

Mio nonno leggeva La Domenica del Corriere. Penso che tutti i nonni a quei tempi comprassero La Domenica e Famiglia cristiana, mentre tutti i padri compravano Epoca, L’Espresso e L’Europeo, e il Corriere dei piccoli per i figli.  Una questione di target.

Dovevo aspettare la visita settimanale da nonno Raimondo per gustarmi, da vicinissimo come solo i bambini sanno fare, la copertina della Domenica con la grande tavola di Walter Molino. Il disegno rappresentava un fatto, ma non come potrebbe fare una foto che lo blocca in un certo istante. La Tavola di Molino quel fatto lo narrava, lo sviluppava nel tempo. A volte c’era un treno che deragliava, e potevi quasi sentire il fracasso di ferraglia, gli sbuffi della locomotiva e gli urli dei passeggeri che cercavano scampo gettandosi dai finestrini, a volte c’era il trionfo elettorale di Kennedy, e riuscivi a leggere il trionfo nei suoi occhi e la gioia nel pubblico, e sentire le acclamazioni. Potevi passare del tempo a esaminare quella tavola, così realistica e così tutta a fuoco, anche il minimo dettaglio nello sfondo.

È sempre piacevole guardare nuovamente quelle opere. L’occasione questa volta è, manco a dirlo, il  centenario della nascita di Molino. IlPost.it se ne è ricordato, e lo celebra con una breve biografia e alcune immagini significative. Provate a guardarle da molto vicino con gli occhi di un bimbo. (P. P. Alberigi, illustrazioni di Walter Molino)

La rivincita degli spaghetti

Epoca-Wurstel

Epoca-Wurstel

Facendo una ricerca nell’annata 1977 di Epoca mi è venuta sotto gli occhi una famosa copertina, scherzosamente polemica (o polemicamente scherzosa) che il settimanale pubblicò in risposta a un’altra, forse ancora più famosa, del settimanale tedesco Der Spiegel. In entrambe le copertine l’accostamento è tra cibo preferito e problemi sociali, in Italia la pistola sul piatto di spaghetti (gli anni di piombo), in Germania un manganello sul classico wurstel con crauti (stato di polizia).

Ora che si riparla di wurstel, ma per altri versi, la copertina di Epoca del 1977 ritorna improvvisamente di attualità. Sembra dire: attento a quello che mangi, anche un innocuo piatto di salsicce può esserti fatale. E gli spaghetti, che rappresentano la dieta mediterranea, hanno finalmente la loro rivincita, polemicamente scherzosa s’intende.

(P.P. Alberigi)

Der-Spiegel-Italien

Potremo andare su Marte?

15-400

Nei primi anni ’50 del secolo scorso i viaggi spaziali cominciano a diventare una possibilità reale, dopo oltre un secolo di fantascienza. Uno dei pionieri di questa nuova frontiera è Wernher von Braun, padre della missilistica, lo scienziato tedesco che durante la guerra costruì i temibili missili V2, le armi segrete dei nazisti. Dopo la guerra, trasferitosi negli Usa, Von Braun fu uno dei principali artefici del successo della NASA, comprese le missioni Apollo sulla Luna. Ecco come immaginava, nel 1954, un viaggio su Marte. L’articolo fu pubblicato sul numero di aprile di Collier’s, una rivista specializzata.

Le astronavi in partenza per Marte si radunano intorno alla Stazione Spaziale (a forma di anello)

Le astronavi in partenza per Marte si radunano intorno alla Stazione Spaziale (a forma di anello)

I primi uomini che si prepareranno al grande viaggio su Marte faranno bene a non lasciare in sospeso nessuno dei loro affari: prima che essi possano ritornare alla Terra infatti trascorreranno più di due anni e mezzo. Le difficoltà del lunghissimo balzo interplanetario sono davvero formidabili. Il percorso, seguendo un arco lungo 355 milioni di miglia, sarà compiuto in otto mesi circa anche con l’impiego di astronavi a reazione capaci di viaggiare nello spazio alla velocità di parecchie migliaia di miglia all’ora. Per più di un anno gli esploratori dovranno vivere sul rosso pianeta in attesa che esso nuovamente si trovi nella più favorevole posizione per permettere il ritorno. Altri otto mesi dovranno trascorrere, prima che i settanta membri della spedizione possano nuovamente mettere piede sulla Terra. Durante tutto questo tempo essi saranno esposti a una moltitudine di pericoli ed attacchi, molti dei quali è impossibile prevedere sulla base delle attuali conoscenze.

Potrà mai l’uomo raggiungere Marte? lo sono sicuro che lo potrà, ma è indubbio che prima ch’egli sia pronto dovrà trascorrere un secolo ancora e forse più. Da qui ad allora scienziati e ingegneri avranno modo d’imparare ancor di più di quel che non sappiano, circa le difficoltà fisiche e dinamiche da superarsi in un volo interplanetario, e i pericoli sconosciuti della vita su un altro pianeta. Alcune di queste conoscenze potranno essere acquisite nel giro dei prossimi 25 anni per mezzo della costruzione di una stazione spaziale rotante attorno alla Terra (dove l’osservazione telescopica non sarà minimamente impedita dall’atmosfera terrestre), e la susseguente esplorazione della Luna. Anche ai nostri giorni la scienza può elencare i requisiti tecnici di una spedizione su Marte fin nei minimi dettagli. La nostra conoscenza delle leggi che governano il sistema solare – così precisa che gli astronomi possono predire un’eclisse solare fino a una frazione di secondo – permette agli scienziati di determinare con rigorosa esattezza la velocità che una nave spaziale deve raggiungere nel suo volo sul nostro prossimo pianeta, la traiettoria che ne intercetterà l’orbita e l’istante stesso dell’incontro, i metodi d’atterraggio, di partenza e di manovra, Come conseguenza di questi calcoli sappiamo d’avere carburanti chimici adeguati a simile impresa. Indubbiamente nei prossimi cento anni saremo capaci di scoprire propellenti migliori. Il progresso scientifico farà quindi senza dubbio superare alcuni concetti costruttivi sui quali questo articolo, con la serie delle sue illustrazioni, è basato. Comunque è possibile discutere i problemi di un volo su Marte sulla base delle nostre odierne conoscenze. Possiamo presumere per esempio che tale spedizione possa essere condotta a buon fine da 70 uomini tra scienziati e pionieri. Sarà necessario perciò predisporre una flottiglia di 10 navi astrali di notevoli proporzioni, capaci ciascuna di trasportare più di quattromila tonnellate di materiali, non soltanto perché v’è maggior possibilità di salvezza nel numero, ma per le notevoli quantità di carburante, equipaggiamento scientifico, cibo conservato, ossigeno, acqua e altro, il tutto necessario per il viaggio e per la permanenza di circa 31 mesi lontano dalla Terra. Tutte le necessità materiali d’una simile impresa possono essere scientificamente prevedute.

In orbita a 600 miglia sopra Marte. Distacco del “naso” dell’astronave e montaggio delle ali

Purtroppo però la scienza non può con altrettanta certezza prevedere quali saranno le reazioni del corpo umano: l’uomo è la vera quantità ignota, il punto debole di tutto il progetto, ciò che allontana la spedizione a un futuro remoto. I 70 esploratori dovranno sopportare pericoli e fatiche finora mai sopportati dall’uomo nella sua storia. Molte difficoltà dovranno essere appianate o almeno previste prima che il viaggio possa divenire effettuabile. Per mesi, a esempio, per un lungo tratto del volo, i membri della spedizione non avranno alcun peso. Può il corpo umano sopportare per lungo tempo d’essere senza gravità alcuna? Gli equipaggi delle navi spaziali che faranno la spola tra la Terra e la stazione spaziale – base di futuri più lunghi voli, posta a mille miglia di distanza – si abitueranno in breve all’assenza di gravità, ma essi non esperimenteranno questa sconcertante sensazione che per poche ore ogni volta; una assoluta mancanza di peso, prolungata nel tempo, può rivelarsi cosa del tutto diversa. Un periodo di mesi nello spazio vuoto può fiaccare i muscoli, abituati di solito agli sforzi cui la gravitazione li sottopone, in modo considerevole, proprio come avviene per i muscoli delle persone costrette a letto da gravi malattie o che siano state per lungo tempo ingessate per fratture o lesioni. I membri della spedizione su Marte da un indebolimento di tal genere potrebbero essere gravemente handicappati. Il rigoroso e severo programma di lavoro che li attende sul pianeta inesplorato esige ch’essi siano forti e pronti al momento dell’arrivo. Il problema deve essere risolto a bordo dei veicoli spaziali e qualche elaborato genere di ginnastica meccanica potrebbe esserne una risposta. Si potrebbe anche determinare sinteticamente la gravità sulle navi spaziali costruendole in modo ch’esse roteino durante il volo siderale creando così sufficiente forza centrifuga capace di sostituire la gravità. Un pericolo di gran lunga maggiore a quello dell’atrofizzazione dei muscoli è l’offesa che può provenire dai raggi cosmici; una dose eccessiva di tali particelle atomiche, che sono capaci di penetrare profondamente ovunque e che agiscono come le invisibili radiazioni provenienti dallo scoppio di una bomba atomica, può causare cecità completa, danneggiare gravemente le cellule e con ogni probabilità essere apportatrice di cancro. Gli scienziati hanno misurato l’intensità delle radiazioni cosmiche nei pressi della Terra. Essi, notando che i raggi si disperdono quasi del tutto nella nostra atmosfera, sono giunti alla conclusione che l’uomo può con tutta sicurezza avventurarsi sino alla Luna senza correre il rischio d’essere colpito da eccessive radiazioni. il viaggio alla Luna però, paragonato a quello su Marte, è brevissimo: cosa può accadere agli uomini che vengano esposti alle radiazioni cosmiche per mesi interi? Praticamente non v’è materiale alcuno che offra protezione efficiente; gli ingegneri spaziali potrebbero frapporre una barriera al pericolo costruendo le pareti delle cabine dello spessore di parecchi piedi, ma ciò significherebbe aggiungere centinaia di tonnellate alla già pesante aeronave. Un progetto più realistico sarebbe quello che considerasse la possibilità di circondare le cabine con serbatoi di carburante, aggiungendo così tre o quattro piedi di spessore liquido a salvaguardia dell’equipaggio. Può anche darsi che quando la spedizione sarà pronta, certo dopo il duemila, nel campo della medicina si sia prodotta una droga capace di far sopportare agli uomini le radiazioni cosmiche per lunghi periodi. In ogni caso prima ancora che si compia la spedizione, razzi teleguidati muniti di strumenti sensibilissimi, raggiungeranno Marte per ritornarne con tutte quelle informazioni che possano chiarire alcuni misteri sul viaggio da compiere.

Le meteore, per esempio: numerosi bilioni di piccoli proiettili, quasi tutti non più grandi di un granello di sabbia, sfreccianti nello spazio a velocità superiore alle 150 mila miglia orarie. Per voli spaziali brevi le astronavi potrebbero essere protette dall’attacco di questi straordinariamente veloci corpuscoli ricoprendo tutte le aree vitali, depositi di carburante, motori a reazione, cabine passeggeri con metallo leggero speciale. Le meteore esploderebbero contro questo metallo antiproietto lasciando la sottostante rivestitura dell’aeronave e gli occupanti indenni. In sedici mesi di viaggio spaziale però, quanti cioè ne occorrono per giungere a Marte si possono incontrare proiettili ancor più grandi. Gli scienziati sanno che la probabilità d’incontrare grosse meteore è maggiore presso il rosso pianeta che attorno alla Terra. Se per un caso qualsiasi una meteora grande quanto una palla da baseball dovesse forare il rivestimento di un astrorazzo i danni che ne deriverebbero sarebbero terribili: un corpo qualsiasi di quelle dimensioni attraversante lo spazio a velocità tanto terrificante esploderebbe con forza inimmaginabile e la cabina del veicolo spaziale sarebbe sconvolta da una totale distruzione. Per fortuna meteore così grosse sono estremamente rare anche nei pressi di Marte.

Piano di volo con i punti di atterraggio

Sarà più facile invece incontrare meteore della grossezza di una monetina. Esse con tutta facilità attraverserebbero i rivestimenti dell’aeronave esplodendo nell’urto con qualche corpo solido: se non incontrassero invece alcun ostacolo, passerebbero da parte a parte il razzo causando notevoli danni anche in quest’ultimo caso. I fori devono essere subito chiusi perché sia tenuta costantemente la pressione nella cabina; gli occupanti potrebbero essere colpiti da choc per l’estrema velocità della meteora: nell’interno dell’astrorazzo si verificherebbe un lampo accecante, mentre la frizione determinata dal passaggio del corpo estraneo nell’atmosfera della cabina produrrebbe un calore così intenso da bruciare le ciglia di un uomo poco lontano. Senza contare che qualsiasi persona si trovasse giusto sulla traiettoria della meteora sarebbe senza dubbio gravissimamente ferita. I pezzi più fragili di macchinario possono in casi simili andare distrutti e non è da escludere che l’intera aeronave debba essere abbandonata. Una simile eventualità non sarebbe però fatale poiché un veicolo spaziale gravemente danneggiato può essere abbandonato abbastanza facilmente; tutti i razzi saranno dotati di piccoli velivoli a propulsione autonoma – veri tassì spazi ali di facile costruzione e manovrabilità. Normalmente essi saranno adibiti a mantenere il contatto durante il viaggio tra le varie aeronavi del convoglio mentre potranno egregiamente servire in caso di emergenza. Se per una ragione qualsiasi questi mezzi non potessero essere impiegati, per la vastità delle distruzioni nell’aeronave, gli occupanti potrebbero sempre abbandonare quest’ultima, con indosso speciali scafandri pressurizzati impiegando speciali fucili razzo per avvicinarsi alla più vicina astronave del convoglio. Gli esploratori chiusi nei loro scafandri non avranno nessuna difficoltà a muoversi da nave a nave non essendoci aria ad impedire il loro moto, né spinta gravitazionale alcuna, né sensazione di velocità: essi non dovranno che superare la propria inerzia. Chi viaggia per il sistema solare a una velocità superiore alle 70 mila miglia orarie non s’accorge del fatto più di quanto potrebbe accorgersi un uomo sulla Terra che ogni molecola del suo corpo si muove alla velocità di 66.600 miglia all’ora attorno al sole. La scienza risolverà tutti i problemi relativi ai raggi cosmici, alle meteore e a tutti gli altri fenomeni naturali dello spazio: con tutto ciò è necessario ripetere che una grande incognita sta di fronte all’uomo: se stesso. Egli deve respirare, deve difendersi da una grande varietà di malattie, deve alimentarsi e proteggersi da possibili deviazioni psicologiche, alcune delle quali ancora oscure. Come potrà la scienza provvedere di una atmosfera sintetica le cabine delle astronavi e la zona d’atterraggio per due anni e mezzo? Quando alcuni uomini sono rinchiusi in un’area ben delimitata, e solo per pochi giorni o settimane, l’ossigeno’ può essere sostituito e l’acido carbonico e le altre impurità eliminati senza difficoltà. Gli ingegneri di sottomarini hanno trovato soluzioni a questo problema già da lungo tempo; ma i sottomarini tradizionali dopo brevi immersioni ritornano nuovamente all’aria libera mentre nello spazio e su Marte non si troverà in alcun modo aria respirabile; gli uomini in visita al rosso pianeta dovranno portarsi con sé ossigeno sufficiente per parecchi mesi. Durante tutto il tempo della spedizione essi vivranno, lavoreranno, nei limitati confini di una cabina aerea o nei trattori pressurizzati che trasporteranno su Marte. Anche se l’ossigenazione sarà abbondante, l’atmosfera in questi quartieri abitabili sarà comunque di difficile respirazione. Tutte le funzioni relative alla vita, per esempio quella della cucina, non faranno che apportare nuovi veleni nell’aria sintetica. Non meno di agenti tossici sono generati giornalmente in una delle nostre abitazioni in funzione; pensate che il solo atto di friggere un uovo produce un potentissimo irritante, l’acroleina. Il suo effetto sulla Terra è del tutto irrilevante perché essa viene immediatamente dissipata nell’aria. Pure una microscopica quantità di acroleina nei quartieri personali di una spedizione su Marte potrebbe dimostrarsi pericolosissima. Se non si trova infatti un sistema .per eliminarla dall’atmosfera, essa continuerebbe a circolare attraverso le apparecchiature di condizionamento. Senza contare che ai veleni prodotti dalla cucina e da altre cause secondarie, vanno aggiunti quelli provenienti dall’equipaggiamento ingegneristico – lubrificanti, fluidi idraulici, materie plastiche capaci di contaminare in breve l’atmosfera. Cosa può essere fatto per risolvere un problema di tanta importanza? Attualmente nessuno può dare una risposta a simile interrogativo, ma non v’è dubbio che l’impiego di filtri chimici applicati all’apparato condizionatore, possa riuscire a mantenere pura l’atmosfera sintetica. Questo per quel che riguarda uno dei tanti problemi fisici da superare, ma vi sono quelli psicologici da tenere pure in gran conto. Può un uomo mantenere il suo perfetto equilibrio psichico dopo essere restato inscatolato per più di trenta mesi in un’affollata cabina? Essere chiusi in breve spazio in compagnia di numerosi altri uomini ed essere completamente tagliati fuori dal mondo esterno può essere causa di grave irritazione; dopo pochi mesi la tensione è tanto notevole da provocare casi di pazzia. Immaginatevi chiusi in una nave spaziale a una distanza di milioni di miglia dalla Terra. Siete costretti a vedere la stessa gente tutti i giorni; la Terra, con tutti i significati che essa ha per voi, non è niente altro che una stella brillante nel cielo; non siete nemmeno sicuri di poterci tornare. Ogni rumore che riguardi l’astronave vi suggerisce l’idea d’un disastro, ogni colpo esterno l’urto con una meteora. Il problema psicologico sarà particolarmente difficile durante i primi due mesi di volo: ciò non significa che una volta giunti su Marte tutto si appiani; l’isolamento sarà totale, lo scenario grigio e monotono, la presenza del pericolo, proveniente da chissà quale oscura fonte, costante. Gli equipaggi di Cristoforo Colombo in navigazione verso l’America si trovarono a dover affrontare una situazione identica a quella che dovrà essere affrontata dagli esploratori di Marte: i marinai del XIV. secolo superarono brillantemente la tensione psicologica e nessuno d’essi impazzì, ma Colombo viaggiò per sole 10 settimane per raggiungere l’America; nessuno dei suoi uomini avrebbe resistito a un viaggio di 8 mesi. È certo perciò che gli psicologi studieranno accuratamente il modo di sostenere il morale dei pionieri. La flotta sarà in costante comunicazione radio con la Terra: è da escludere che ci possa essere contatto televisivo data la grande distanza. I radioprogrammi saranno specialmente dedicati ai volatori, e controllati dalla censura: non è possibile sapere, tanto per dire, quale reazione può provocare in un uomo la notizia che la sua città è il centro di un’inondazione. Si predisporranno proiezioni cinematografiche, e materiale di lettura sarà portato a bordo in forma di microfilm per non occupare troppo spazio. Non resterà insomma intentato nulla che possa tenere alto il morale degli equipaggi e rendere meno monotona la loro vita. Si potrà forse ricorrere anche ad un metodo apparentemente del tutto fantastico, ma che è necessario menzionare perché gli esperimenti ne hanno mostrato la possibilità pratica d’applicazione. I membri di una spedizione su Marte, esenti da qualsiasi genere di lavoro durante il viaggio, potrebbero essere messi in letargo. Dottori francesi sono riusciti a provocare su certi pazienti una specie di letargo artificiale in occasione di difficili interventi chirurgici. Il processo involve un abbassamento della temperatura del corpo e una susseguente diminuzione di tutte le attività fisiche. Una procedura parallela, in connessione con una spedizione su Marte e per un lungo periodo, risolverebbe molti problemi psicologici, senza contare il risparmio di cibo durante il viaggio e le superbe condizioni fisiche in cui si verrebbero a trovare gli esploratori al momento dell’atterraggio. Certo se il volo dovesse attuarsi nei prossimi 10 o 15 anni nessuno prenderà in seria considerazione quest’ultima soluzione come possibile. Ma noi stiamo parlando di un viaggio da farsi tra 100 anni e io son convinto che se gli esperimenti francesi daranno buoni frutti, si ricorrerà senz’altro all’ibernazione artificiale. Inoltre, ultimamente, gli scienziati hanno intravisto la possibilità di produrre un nuovo tipo di carburante, il cui impiego si rivelerebbe utilissimo, così economico e potente da rendere possibili velocità maggiori. Il suo impiego abbrevierebbe notevolmente la traversata e naturalmente tutti i pericoli psicologici e fisici relativi.

Ad ogni buon conto i membri della spedizione saranno selezionati con grandissima cura. Gli scienziati stimano che solo una persona su seimila possa essere qualificata fisicamente, mentalmente ed emotivamente alla dura prova. E poi, avranno i settanta uomini della spedizione, oltre le necessarie qualità fisiche, una sufficiente preparazione scientifica per l’esplorazione del pianeta? lo ritengo di sì: e un bel giorno, tra un secolo, anno più anno meno, una flotta di astronavi salperà in direzione di Marte: ne basteranno dieci, lanciate da un’orbita posta a circa mille miglia nello spazio e fasciante il nostro globo all’altezza dell’equatore. (Staccarsi direttamente dalla Terra richiederebbe una spinta d’avvio enorme, mentre partire da un’orbita lontana mille miglia, fuori dal campo d’attrazione gravitazionale terrestre significherebbe risparmiare notevoli, preziosissime quantità di carburante). Le astronavi destinate a Marte, radunate nell’orbita fissata, saranno dotate di complessi apparati propellenti e di grandi cabine passeggeri: tre d’esse saranno munite di una prora particolarmente affusolata, e rimovibile; al momento opportuno a queste tre parti staccabili verranno applicate grandi ali speciali, dopo di che verranno lanciate su Marte quali unici velivoli destinati all’atterraggio. Ecco, le dieci astronavi sono a 5.700 miglia dalla Terra, tutti i motori vengono spenti perché da questo momento in avanti il viaggio continuerà senza bisogno di alcuna spinta meccanica.

Il primo velivolo marziano, assemblato in orbita, è in volo verso il Polo ghiacciato

 

Il problema dell’esistenza della vita su Marte non è stato ancora risolto

Tra otto mesi nell’entrare nell’orbita di Marte a circa 600 miglia d’altezza sarà necessario regolare la velocità per evitare di essere lanciati nuovamente nello spazio vuoto. La spedizione si fermerà lungo quest’orbita invece di procedere direttamente sul pianeta per due ragioni: primo, le astronavi (escludendo le tre parti molto affusolate di cui abbiamo parlato più sopra) non saranno sufficientemente aerodinamiche per volare nell’atmosfera marziana; secondo, sarà molto più economico evitare di trasportare il carburante necessario al ritorno, in giù fino a Marte e poi di nuovo all’insù fino al limite gravitazionale di questo. Raggiunta l’orbita a 600 miglia di distanza e dopo alcune esplorazioni compiute nell’atmosfera marziana con razzi telecomandati il primo dei tre mezzi d’atterraggio sarà preparato: vi saranno saldate grandi ali e uno speciale carrello d’atterraggio dopo di che verrà lanciato verso la superficie del pianeta sottostante.

Si toccherà Marte sulla cappa polare completamente coperta di neve, unico punto ove ci sia probabilità ragionevole di incontrare una superficie del tutto piatta. Una volta a terra i pionieri sbarcheranno tutto il materiale e si installeranno nelle cabine a forma sferica di speciali trattori per il viaggio di 4.000 miglia via terra, verso l’equatore marziano. Là giunti costruiranno la base principale della spedizione e predisporranno un campo d’atterraggio per gli altri due veicoli spaziali. (Il primo mezzo d’atterraggio sarà abbandonato al polo). In tutto la spedizione resterà sul pianeta 15 mesi. Si tratta di un periodo lungo, ma certamente troppo breve perché possa chiarire tutti i quesiti che la scienza si pone. Quando nuovamente la Terra e Marte cominceranno ad avvicinarsi nel cielo, i due apparecchi atterrati all’equatore verranno sollevati in posizione verticale e, questa volta senza ali e senza carrelli, saranno lanciati verso l’orbita a 600 miglia da Marte, primo passo sulla via del ritorno. Quali curiose informazioni ci riporteranno da Marte questi primi esploratori? Nessuno lo sa ed è molto dubbio che qualcuno attualmente in vita lo possa mai sapere. Ciò che oggi è certo, è che il viaggio può essere compiuto e sarà compiuto… una volta o l’altra. (Wernher von Braun – Cornelius Ryan)

La flotta schierata in orbita attende il ritorno dei pionieri

 

Operazioni sul suolo marziano con speciali trattori pressurizzati

 

Pronti per ripartire verso la Terra!

 

Giorgio cerca casa

Vi ricordate “I racconti della Ragnatela“? È stato il primo dei nostri “empty book“, qualche anno fa. Tra gli altri racconti ne conteneva uno, che riguardava la vita solitaria ma ricca di immaginazione di un ragazzo che ogni sera esplora un possibile appartamento da comprare, ci vive, in modo virtuale, con una possibile compagna, e alla fine archivia tutto in una cartellina del computer… Buona lettura:

Giorgio cerca casa (di M. Altieri, da I racconti della Ragnatela, Xedizioni 2013)

Verso sera, dopo una giornata lavorativa intensa e stancante, ecco Giorgio davanti allo schermo del pc. Cerca casa. Vuole comprare un appartamento per sé e la compagna. Per fortuna ci sono questi siti di annunci gratuiti che mettono anche le foto dell’interno e di quello che si vede dalle finestre. Giorgio preferisce Homesweethome che ti fa fare un giro virtuale della casa in vendita: via dei Tulipani, ingresso, salone, angolo cottura luminoso con vera cappa aspirante, camera da letto, cameretta, comodo il bagno con l’antibagno, e la verandina con lo stenditoio coperto. Riscaldamento autonomo, però chissà se conviene rispetto al sistema tradizionale a termosifoni, certo comunque che a un piano intermedio sfrutti anche il calore dei vicini, purché scaldino anche loro, altrimenti sei tu che devi provvedere a stemperare le loro pareti. Andiamo giù a guardare il posto auto, ampio, dovrebbe essere possibile entrare e uscire con una sola manovra, e poi lo scooter contro il muro se non hai una macchina troppo lunga, sempre che i condomini non protestino, sai ci sono quelli che vanno in giro a misurare gli ingombri e a farne una questione di principio. Torniamo su a fare ancora un giro, vorrei la piantina per vedere come sistemare i mobili, certo, questa è perfettamente in scala, se ritagli le sagomine di armadi e cassettoni riesci bene a renderti conto delle disposizioni possibili. Magari nella camera da letto si riesce a ricavare la cabina armadio, che piace tanto alle donne. Bella, questa casa piace molto a Giorgio. Tanto che decide di farsi un giro per il quartiere per capire bene come ci si vive: Streetview è l’ideale per trovare la fermata del bus più vicina, il market (che fortuna, proprio quello di cui ho la tessera-punti), l’ufficio postale e la farmacia. Appena possibile chiederò ai vicini qualcosa sull’ambiente, se si tratta di gente tranquilla. Ma mi pare di aver visto solo macchine pulite e gente ben vestita nelle strade, e il primo colpo d’occhio è importante! La vista dal satellite di Google Earth mostra parecchio verde intorno: certo si tratta di un quartiere ben disposto, anche se lontano dal centro. Dovrei parlarne con lei, anche perché il prezzo non è particolarmente basso, ma col mutuo sembra ragionevole e ci possiamo arrivare.

E adesso Giorgio pensa a lei. Dovrà essere romantica ma indipendente, non troppo gelosa, che ami bere un goccio di vino rosso in compagnia, che non ami troppo gli animali sennò vuole subito mettersi in casa un cane o un gatto, e allora addio tappezzeria e cuscini del divano! Deve amare il cinema e le serate con amici, ma anche le cenette tranquille, non troppa tv, un buon libro e l’intimità. L’appartamento è piccolo, sarebbe bene non cominciare subito a sfornare bambini, anche se in effetti una cameretta ce l’abbiamo, ma sai com’è, una stanza di sgombero per l’asse da stiro e un letto per l’ospite (ma quale ospite?) fa sempre piacere. Incontriamoci.it è il sito preferito di Giorgio. Permette di inserire molte foto e descrizioni dettagliate, e poi incrocia i dati per proporti l’anima gemella, o almeno la più gemella tra le possibili. E soprattutto che stia cercando uno come te, altrimenti è tempo perso. Oggi Incontriamoci ne propone due, Silvia e Annalisa. Annalisa sembra promettente, nella foto al mare non si vede tanto bene, ma ha un bel sorriso, e poi è online in questo momento. Proviamo con lei, due chiacchiere giusto per conoscerci, i gusti a tavola (non vorrei capitare con una talebana vegana), aragosta? Certo, ma non troppo spesso, altrimenti le rate del mutuo chi le paga, hahahaha! Simpatica, dai, ci sentiamo ancora, eh? Dai, buonanotte, domani alzare presto per lavorare. Notte.

Bello, mi sto già innamorando, la mia vita con Annalisa nel nuovo appartamento, in quel quartiere verde e luminoso, non le ho chiesto se ha la macchina e dove lavora, magari bisogna cercare un appartamento con due posti macchina, uno coperto e l’altro dove capita, altrimenti parcheggiare in strada, mmm, forse si può trovare di meglio. Anche lei, in quella foto, quei rotoli, e se poi è più grassa di come sembra? Se diventa subito grassa e comincia a rompere le scatole con le diete? Mmm, mi sa, domani quando torno dal lavoro cerco ancora. Due posti auto, una ragazza magra, anche se non ha molto seno non importa, si può sempre rimediare al giorno d’oggi. L’importante è: niente rotoli, e poi tutta quell’aragosta! No, Annalisa, meglio lasciarci adesso che non soffriamo molto. Sono certo che troverai l’uomo giusto, meglio se lo trovi ricco, hehehe! Io serberò un bel ricordo di te, in quell’appartamento con l’antibagno e l’angolo cottura luminoso…

Ora Giorgio archivia Annalisa e la sua vita con lei nell’appartamento di via dei Tulipani, una cartellina nel pc con le foto e la trascrizione della chat, e i link per ritrovare tutto. Sono tante cartelle ormai, tanti bei ricordi. E tanto sonno. Notte Giorgio.

Bonatti di prima mano

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1963-646-Grandes-Jorasses-2“La notte è eterna. L’alba si preannuncia livida e opaca. Sotto, il ghiacciaio di Leschaux è ingoiato da un fitto mare di nubi. Sopra, altissima, una densa cappa preme sulla montagna. Le Aiguilles Vertes e il Dru sono fantasmi lontani. Abbiamo voglia di scappare, abbiamo paura, e siamo solo a centotrenta metri dalla vetta. Che sarebbe di noi se ieri non avessimo raggiunto questo punto? Un brivido di terrore segue questa mia riflessione e un barlume di speranza si accende subito dopo nel cuore. Riprendiamo la scalata. La bufera è un crescendo continuo. I piedi e le mani in certi momenti sembrano rifiutarsi di obbedire. Eppure dobbiamo superare questo ultimo ostacolo. È qui che la volontà si rivela più forte degli elementi scatenati. Vogliamo assolutamente arrivare, vogliamo assolutamente salvarci. Le mani non accarezzano più gli appigli, ma li stringono come morse. La nostra non è più una semplice arrampicata, ma un disperato desiderio di sopravvivenza. Ecco la cornice nevosa della vetta. Ancora trenta metri di rocce saldate dal gelo, poi una placca di granito liscio frangiata di brina. Le mani mi s’incollano sopra la roccia. Stringo i denti dal dolore, compio un ultimo acrobatico volteggio e finalmente sopra il mio capo appare un gigantesco ricciolo di neve. il lato sinistro ha una trasparenza verdastra Cerco di romperlo per uscire fuori, ma una raffica di vento mi acceca. Quasi a occhi chiusi, con le palpebre incollate dal ghiaccio, alzo la piccozza e la conficco al di sopra della cresta. Un attimo dopo mi rotolo dall’altra parte: sono sulla vetta delle Grandes Jorasses.” (Walter Bonatti, 1963)

Da “Questi sette terribili giorni che avevo sempre sognato”, Epoca, 10 febbraio 1963, n. 646, articolo-diario scritto subito dopo l’avventura.

Vedi la pagina sul dossier Epoca-Bonatti

 

Sardegna luogo comune

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porceddu-expoLe recenti vicende del maialetto sardo all’Expo, con le levate di scudi e le lance spezzate hanno fonito spunto per parlare di Sardegna. Lo fanno molti articoli, blog, note sulla stampa e sul web. Ne scegliamo due, che in qualche modo si somigliano, sebbene in ambiti, con stili e profondità differenti. La prima è una breve nota di Umberto Cocco apparsa sulla rivista online Sardegna soprattutto, intitolata Ben vengano i “barbari”.

Il secondo pezzo: Luogo comune: Sardegna di Alberto Volpi pubblicato su Doppiozero è un saggio letterario che non risparmia nessuno: da Grazia Deledda a Niffoi e giù fino a Michela Murgia, e conclude “Insomma la Sardegna rappresenta uno dei più potenti stereotipi sul luogo letterario, che meriterebbe di stare in testa a un’integrazione o rovescio dell’Atlante curato da Gabriele Pedullà; stiano quindi attenti il turista e il lettore, nel mettere il piede o l’occhio sull’isola, per non finire in un mondo già da tempo precostruito (a meno che non sia esattamente ciò che vogliono).” (Redazione)

 

I Puppetoons di George Pal

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George Pal, regista di origine ungherese dal nome originale impronunciabile, divenne famoso a partire dagli anni ’30 per aver sviluppato una tecnica di animazione cinematografica originale e di grande effetto. Lui stesso la battezzò Puppetoons, ossia i “cartoons di pupazzi”. Era realizzata con figurine in legno intagliate, colorate e verniciate a mano, delle quali venivano realizzate tantissime versioni con le varie espressioni e posizioni dei personaggi.

Mediante questa tecnica Pal realizzò dapprima degli shorts pubblicitari, e in seguito dei cortometraggi per il cinema. Fu un vero genio degli effetti speciali.

Vale la pena, dopo aver capito come faceva, dare un’occhiata a uno dei suoi lavori, per esempio quello che segue, creato per la pubblicità di un sofisticato apparecchio radio della Philips olandese. Buona visione:

La grande Revue Philips 1938

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Le mummie del ’900

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Per prima cosa si estraeva il cervello, organo considerato inutile che veniva gettato via, e tutti gli organi interni che invece venivano conservati nei vasi. Il corpo così svuotato veniva quindi adagiato in una vasca e ricoperto con sabbia ricca di salnitro, dove restava per settanta giorni, e in seguito profumato con essenze di palma e ginepro per essere poi lasciato all’aria ad essiccarsi perfettamente. Il cadavere ora era pronto per l’ultimo procedimento: la cavità addominale veniva riempita con bende di lino e con vegetali triturati, mirra, ginepro, cassia ed altri aromi. Tutte le cavità venivano chiuse con batuffoli di lino, comprese le cavità oculari sulle quali venivano dipinte le iridi; il viso veniva perfettamente truccato: le labbra rosse di betel, kajal attorno agli occhi e unghie dorate o smaltate di rosso. È grazie a queste procedure che le mummie dei faraoni egiziani si sono conservate e sono giunte fino a noi, in condizioni pressoché perfette. Perfette fuori, vuote dentro. Dei gusci vuoti, ma sufficienti a tramandare un mito.

Una tecnica analoga si è applicata, durante la storia della civiltà e specie nella società di massa del XX secolo, per creare idoli e miti, modelli per milioni di persone. Ma modelli, si badi bene, puramente estetici ed evocativi, bidimensionali come la stampa su una t-shirt o una spilletta. La distillazione da personaggio a mito avviene come per la preparazione di una mummia. Prendiamo uno scienziato “noto” a tutti: Albert Einstein. Chi più di lui aveva cervello, spessore, potenza intellettuale e razionale? Via tutto! Via subito il cervello, via il cuore, via il pensiero innovativo, via qualunque riferimento alla sua vita complessa e difficile, alla sua Fisica. Lasciamo il viso, possibilmente in qualche espressione buffa e simpatica, lasciamo alcune citazioni possibilmente false ma utilizzabili in vari contesti, come la famosa “Dio non gioca a dadi” o quella che prevede la fine dell’umanità in seguito all’estinzione delle api (entrambe false), lasciamo che la parola “relatività” sia associata al nome, a proposito o a sproposito, ed ecco creata la mummia eterna, immarcescibile, l’icona Einstein per il consumo di massa.

Andy Warhol, si sa, è stato maestro nella trasformazione di personaggi in icone. Grazie alle tecniche della stampa serigrafica lavora a decine di dipinti nei quali un volto sorridente viene riprodotto mutandone semplicemente i colori, d’altronde lo stesso Warhol amava farsi sostituire da sosia perché la sua immagine potesse essere dappertutto.. In questo modo il personaggio di riferimento (famosa la sua Marilyn) scompare e resta solo la sua immagine. La stessa espressività scompare, e con essa tutto lo spessore del ritratto. Ecco le mummie del ‘900, che si aggirano ancora perfettamente integre nella nostra società dell’immagine. (07/08/15 P.P.  Alberigi)


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Scrittori che non sembrano scrittori

Scrittori

ScrittoriI quotidiani si divertono di tanto in tanto (e divertono i lettori) pubblicando gallerie fotografiche curiose, speciali, a sfondo animalsta o culturale. Questa de “Il Post” è dedicata a scrittori ripresi in pose e in situazioni non convenzionali. C’è perfino Agata Christie su una tavola da surf, e non mancano i “nostri” de Céspedes e Arthur Miller con Marilyn.

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L’istanza del mallevadore

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Si Dall'archivio Dolciniè parlato recentemente di Massimo Dolcini, fondatore di una nota agenzia di marketing pubblicitario, grazie a una mostra che si tiene a Fano: Massimo Dolcini. La grafica per una cittadinanza consapevole. Torna alla memoria un periodo d’oro della grafica, e una figura di grafico al servizio della comunità, il “grafico condotto”.

Il punto è che non sempre le istituzioni e il cittadino comune si trovano in sintonia, e le semplici norme di convivenza urbana, esposte con cartelli, moduli da compilare, istruzioni per l’uso dei servizi spesso risultano astrusi, di difficile comprensione, o semplicemente arroganti e antipatici. È qui che entra in scena la grafica utile, che trasforma le norme in comunicazione semplice, chiara, e magari anche bella. Perché no.

L’esperimento di Dolcini col Comune di Pesaro è famoso, e ha dato vita negli anni ’70-’80 a una serie di manifesti che vale la pena ripercorrere, per esempio qui.

L’idea di grafica utile si è poi sviluppata, ma ancora non ha guadagnato la consapevolezza da parte di tutte le istituzioni, e soprattutto ancora non si è trasformata nel concetto, più generale, di “comunicazione utile”.

Mi viene in mente un piccolo caso recente: un giorno ho trovato la signora kirghisa che si occupa di mia madre molto preoccupata. Doveva chiedere il rimborso dei biglietti del bus utilizzato per frequentare un corso elementare d’italiano. I biglietti li aveva conservati diligentemente, ma ora c’era da compilare un modulo. E i moduli da noi cominciano sempre in modo antipatico, in terza persona (“Il/la sottoscritto/a…”). Poi i soliti campi da riempire, alcuni comprensibili (nome ecc.), seguiti da alcune formule misteriose, e infine un campo completamente ostico per un kirghiso al livello 2 di italiano: “allega alla presente istanza…”, nel punto in cui avrebbe dovuto semplicemente esserci un “allego i biglietti”. In quel caso ho semplicemente aiutato la signora, compilando il modulo per lei. Il che non le ha sollevato il morale, in quanto si è comunque sentita inadeguata. Ma la domanda è: non sarebbe il caso di curare un po’ la comunicazione, partendo da queste cose semplici, e avendo in mente le due domande basilari della comunicazione: “cosa” voglio comunicare, e “a chi”. Forse quel modulo sarebbe stato meno antipatico, pur restando corretto e rigoroso.

Ogni istituzione, ente pubblico, scuola, avrebbe il diritto (e il dovere) di appoggiarsi a un “grafico condotto”, o a un “pubblico comunicatore”, che potrebbe aiutare a spiegare come funziona il servizio del bike o car sharing, o come pagare il parcheggio sotterraneo e riuscire a uscire nei dieci minuti consentiti senza restare intrappolato dietro le sbarre, e potrebbe rendere digeribili i divieti e gli obblighi che costellano le nostre interazioni sociali. (16/07/15 P.P. Alberigi)


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I “selfie” di Bonatti

stivali-fango

stivali-fangoUna delle grandi innovazioni di Walter Bonatti fu l’abitudine di documentare con precisione, per iscritto e per immagini tutte le sue imprese, a partire dalle prime scalate degli anni ’50. Se è vero che gli alpinisti hanno sempre portato con sé una macchina fotografica, indispensabile come prova del raggiungimento del traguardo, Bonatti fu innovatore da questo punto di vista grazie a una speciale passione e al suo talento naturale. È proprio in virtù di quest’arte che diventerà il più grande fotoreporter di “Epoca”, l’avventuroso esploratore di tante imprese “ai confini del mondo”.

Anche per le avventure “in solitaria” Bonatti mise a punto delle tecniche per fotografare sé stesso nelle varie fasi dell’esplorazione, mediante l’uso dello scatto radiocomandato, una tecnica sofisticata appena introdotta negli anni ’60, e/o di semplici prolunghe a pertica, un po’ come gli attuali “bastoni da selfie” che troviamo nelle bancarelle. Nella doppia pagina che pubblichiamo qua sotto (tratta dal volume Le Grandi Avventure del 1966) si notano alcuni scatti della canoa presa dalla prua, e si vede anche il trucco (in basso a sinistra): una fotocamera montata su una prolunga d’acciaio che sporge di un metro oltre la canoa. L’effetto è splendido, e Bonatti dimostra di sapersi mettere bene in posa. E che dire poi della passione, oggi attualissima, di fotografarsi i piedi? (09/07/15, Redazione)

Selfie-Walter

Nella foto in basso a sinistra si nota la prolunga che sporge dalla prua e sorregge la fotocamera. Le altre foto della pagina sono quindi dei “selfie” ben composti.


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Il “mio” K2

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K2_2-600(quando tutta l’Italia era rivolta alla cima del Karakorum)

Ho vissuto per alcuni anni in un paesino del centro della Sardegna, a ridosso dei monti del Gennargentu. Sono stati i primi anni della mia vita, e mi hanno regalato ricordi ancestrali d’infanzia con la neve e le montagne, grazie al lavoro un po’ girovago di mio padre. E poi c’era una giacca azzurra con cappuccio, un montgomery con gli alamari, regalo, credo, dei miei padrini. Aveva un bellissimo scudetto dalla parte del cuore, rosso e dorato con ricamata la sigla “K2”. Da allora, nel lessico familiare “K2” era quella giacca. “Mettiti il cappadue per uscire”, diceva la mamma.

In quegli anni il K2 aveva portato gloria all’Italia, grazie all’impresa di Compagnoni, Desio e soci: la prima spedizione a conquistare la vetta del Karakorum, la seconda cima del mondo dopo l’Everest, ma la più difficile in assoluto. Oggi su quelle cime ci vanno comitive turistiche, in tutta sicurezza grazie al supporto tecnologico che fornisce indumenti, respiratori, mezzi di comunicazione. Allora (era il 1954) certe cose si facevano ancora con pochi mezzi, abbigliamento inadeguato e tanto coraggio.

Di quella spedizione faceva parte anche il ventiquattrenne Walter Bonatti. Lui si occupò di far arrivare le bombole dell’ossigeno fino all’ultimo campo a 8000 metri, dal quale poi la coppia Compagnoni-Lacedelli prese la strada per la vetta. La storia è ben nota, ed è legata ad una polemica che in seguito attraverserà tutta la vita di Bonatti con una scia di accuse, difese e controaccuse fino al completo chiarimento, avvenuto quando Bonatti era già anziano.

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Walter Bonatti, al centro della foto, durante la spedizione sul K2

Ma tornando all’impresa del K2, Epoca curò la copertura mediatica con una serie di servizi, anche a colori, che illustravano passo dopo passo i percorsi e le tappe, i personaggi e le attrezzature. Quella forse è la prima volta che Bonatti appare su Epoca, un giovanotto un po’ buffo con una folta chioma nera, barbetta e occhiali da montagna.

Mi ha fatto piacere poter sfogliare oggi quelle pagine, di cui allora ero del tutto ignaro, e che servono ancora a giustificare l’orgoglio di un bimbetto di quattro anni per una giacca azzurra col marchietto “K2” che non si voleva mai togliere. (P.P. Alberigi, 2 luglio 2015)


[n.d.r.] L’illustrazione “Il montgomery” è di Enrica Massidda. Aggiungiamo due estratti di Epoca che trattano dell’impresa del K2 (consigliamo di salvare i file sul pc prima di aprirli)

Ecco le prime immagini dell’attacco al K2 (13 giugno 1954)

Il K2 conquistato dagli italiani (4 servizi consecutivi a partire dal 1 agosto 1954)

 


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Noi che la luna l’abbiamo avuta

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Luna1-300L’arrivo dell’estate, con le sue notti chiare, calde, dominate dalla luna finalmente protagonista, riporta alcuni di noi alla famosa notte, quella in cui la Luna siamo andati a prendercela. Ingenui e spavaldi come adolescenti, incuranti dei rischi, abbiamo costruito una macchina perfetta, e con tanto ingegno e tantissima fortuna siamo partiti. Tutta l’umanità, tutti a bordo dell’Apollo 11 a subire la spaventosa accelerazione necessaria a vincere l’attrazione di gravità, bruciando tonnellate di combustibile in pochi minuti, primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, via dall’orbita terrestre, e poi navigare nel silenzio cosmico osservando la strumentazione di bordo, controllando i tempi delle correzioni di rotta, e nel frattempo effettuare operazioni funamboliche mai effettuate dall’uomo per assemblare in volo l’astronave lunare, e poi lo sbarco sul famoso LEM, scattare foto, pronunciare frasi famose, lasciare impronte di scarponi su un corpo celeste diverso dalla Terra. E infine, piccolissimi e leggerissimi, ripartire, ripercorrere le orbite lunari fino alla velocità di fuga, farsi ricatturare dall’attrazione terrestre, tornare indietro tutti sani, neppure un graffio, neppure un piccolo contrattempo. E tanto entusiasmo per il futuro. Cosa verrà dopo? Marte di sicuro tra pochissimi anni, quelle erano le aspettative, e poi chissà quali balzi ancora avanti. Eccoci proiettati nella fantascienza tanto attesa, tanto descritta e immaginata.

Ma torniamo a quella notte di luglio del 1969. Ognuno di noi la visse in modo diverso, e per una parte del mondo non era neppure notte. Per fortuna lo era da noi in Italia: la luna merita che ci si arrivi di notte, come con la cannonata del film di George Méliès.

Molti erano davanti al televisore, rimbalzati qua e la attraverso l’oceano tra lo studio romano e la sala stampa americana grazie ai modernissimi satelliti. Un po’ di confusione, esclamazioni e smentite da una parte e dall’altra nel climax dell’allunaggio (parola che fu immediatamente recepita da un dizionario che se le beve tutte), altri, come me, che non avevano la televisione in casa, si accontentarono di ascoltare la cronaca alla radio. Io ero solo, il resto della famiglia dormiva tranquillamente, e mi sistemai sul terrazzino, con la radiolina all’orecchio e gli occhi verso il pezzo di cielo che riuscivo a vedere.

Oltre alla radio avevo anche un altro supporto che avevo studiato accuratamente nei giorni precedenti: era un fascicolo di Epoca, che descriveva esattamente, passo per passo, la rotta di questa fantastica avventura, e inoltre la illustrava con un percorso numerato in un’immagine a tripla pagina. Da 1 a 30, in rosso, per l’andata, da 31 a 50, in blu, per il rientro.

I settimanali importanti avevano già dato grande spazio alle precedenti missioni spaziali, dalle semplici orbite di Yurij Gagarin e John Glenn fino alla nascita dei progetti Luna e Apollo, forse i più ambiziosi mai concepito dall’uomo. La “conquista della Luna” faceva parte della strategia della guerra fredda, ed era finanziata senza limiti di budget da entrambe le superpotenze.

Le missioni americane furono le più seguite, dato che venivano annunciate, descritte e trattate come eventi mediatici. Quelle sovietiche invece erano sempre ammantate di mistero, e spesso si conoscevano solo a cose fatte. Almeno questa era l’impressione dell’opinione pubblica. Gli astronauti americani erano delle vere star: venivano intervistati nelle loro case con giardino circondati dalle belle mogli e dai figli, venivano seguiti nei voli di addestramento, in divisa militare o in tuta spaziale. Tanto divenne familiare l’astronauta in tuta rigonfia, casco a forma di boccia di vetro e zainetto con antenna e tubi, che ancora oggi nei film di fantascienza ambientati in futuri lontanissimi gli uomini dello spazio si muovono con quell’equipaggiamento degli anni ’60.

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La rotta dell’Apollo 11 dalla Terra alla Luna e ritorno, luglio 1969 (elab. Diego Cuoghi)

 

Quella notte, anche senza televisione le immagini non mi mancarono, e neppure i punti di riferimento. Propongo un piccolo gioco per chi vuole provare quel brivido, quasi di prima mano:

1)      scaricare sul computer e stampare, possibilmente su grande formato, l’immagine con la rotta dell’Apollo 11;

2)      Seguire tutti i passi, specie quelli che vanno dall’abbandono dell’orbita terrestre fino allo sbarco (dal punto 11 in avanti), osservando le piccole figure sulla mappa.

Considerare che tutto ciò veniva fatto, controllato, seguito da terra con la tecnologia di allora, che si basava su computer primordiali, conti fatti a mano e osservazioni stellari effettuate col sestante, come facevano i navigatori del passato per stabilire le rotte oceaniche.

Probabilmente con la tecnologia attuale saremmo in grado di mandare in tutta sicurezza voli con equipaggio ben oltre la luna, sicuramente su Marte, con ottime probabilità di riuscita. Basterebbe avere, come allora, un motivo strategico per farlo, una gara da vincere, un avversario da battere, un budget illimitato. Insomma, quella che si chiamava un tempo “volontà politica”. [P.P. Alberigi, illustrazione di Enrica - 24/06/15]

 


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Incompatibilità di caratteri

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percheQuante volte ci capita di ricevere una mail, o un testo proveniente da un altro computer, e accorgerci che molti caratteri sono stati sostituiti con dei grovigli irriconoscibili. Quelli vecchi, molto vecchi di noi che hanno lavorato con i primi computer conoscono la ragione: è una questione di codifica del carattere. Quando preparo un testo, il programma di scrittura associa a ogni carattere un numero, ed è quello il “codice” del carattere. La base di ogni codifica nei computer è il bit, l’unità binaria. A seconda della lunghezza in bit di una codifica c’è spazio per un numero crescente di simboli. Per esempio con due soli bit si hanno quattro codici (00, 01, 10, 11) che potrebbero essere associati alle prime quattro lettere dell’alfabeto (a, b, c, d) e nient’altro. Con tre bit i codici sono nove e così via. Per rappresentare tutti i caratteri di tutti gli alfabeti del mondo in tutte le loro varianti serve una codifica a moltissimi bit, cosa a cui si sta lavorando. Ma da sempre si sono adottati degli standard, degli insiemi di caratteri codificabili in un numero limitato di bit.

Il codice universale di base si chiama ASCII, creato negli Usa negli anni ‘60. È basato su sette bit, il che fornisce spazio per 128 caratteri differenti. Di questi, solo 95 sono caratteri stampabili veri e propri, gli altri sono codici speciali che servono per dare comandi alla stampante, per esempio “ritorno del carrello” o “interlinea”. Questo set di base è sufficiente per la lingua inglese, che non usa accenti e segni di punteggiatura particolari. Ecco di seguito i 95 caratteri ASCII stampabili:

 

!”#$%&’()*+,-./0123456789:;<=>?@

ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ

[\]^_`abcdefghijklmnopqrstuvwxyz{|}~

 

Sono esposti in ordine di codifica, e sono quasi tutti presenti o ottenibili dalla tastiera del computer con un po’ di abilità. Il primo, invisibile ma stampabile, è lo “spazio”, che ovviamente non ha un corrispettivo “glifo”, ossia un simbolo grafico. Questa, e solo questa, è la codifica che tutti i computer di tutto il mondo capiscono. Qualunque altro carattere è “non standard” e necessita di un previo accordo tra chi spedisce e chi riceve. Un primo passo, ottenuto aggiungendo un solo bit alla codifica (ogni bit raddoppia il numero dei codici possibili) è il cosiddetto “ASCII esteso”, che con 256 caratteri soddisfa quasi tutte le necessità delle lingue europee, fornendo le vocali con accenti acuti e gravi, cediglia, umlaut eccetera. Tuttavia esistono diverse tabelle “ASCII esteso”, per cui si corre il rischio di non ricevere correttamente ciò che ci viene trasmesso da un corrispondente che usi una tabella diversa dalla nostra, anche se dotato di un computer simile al nostro.

La soluzione, nel dubbio, è quella di scrivere i nostri messaggi, o a dare i nomi ai nostri file, usando solo i caratteri della tabella qua sopra. Per noi italiani si risolve nell’usare l’apostrofo al posto dell’accento (e’, sara’, perche’). Si ottiene un testo perfettamente comprensibile, anche se i puristi storcono il naso. Questa è la prassi nella posta elettronica accademica ed è apprezzata dagli altri “puristi”, quelli dell’”ASCII puro”. Certo, uno spagnolo che vuole usare il punto interrogativo rovesciato (¿) non trova niente nella tabella, ma lo trova sulla sua tastiera, e sperabilmente tutti i corrispondenti di lingua spagnola sono in grado di riconoscere quel codice (per inciso, è il codice 168 della tabella estesa europea). I francesi, dal canto loro, pratici come sempre, hanno abolito per legge gran parte delle complicatissime accentazioni della loro lingua, cediglie ed altri segni grafici con i quali, per secoli, si erano torturati i bimbetti di mezzo mondo, dalla Nuova Caledonia al Quebec. Anche in quel caso i puristi storcono il naso, come stanno facendo alla notizia che pian piano viene abolita la scrittura corsiva nelle scuole occidentali. Ma, in definitiva, chi scrive più a mano? Meglio insegnare da subito nelle scuole a digitare rapidamente sulla tastiera, e possibilmente a dieci dita e senza guardare, non come il sottoscritto che usa due dita, per quanto veloci, con gli occhi che inseguono come possono tasti e testo.

Ma cosa ci aspetta per il futuro? Esisterà un codice universale unificato che comprende tutti i caratteri di tutte le lingue del mondo? In realtà, questo codice esiste già, e si chiama UNICODE, e viene sviluppato da un consorzio internazionale. Alla nascita si pensava che 16 bit (circa 65.500 caratteri) sarebbero stati largamente sufficienti per coprire il fabbisogno, e sembrano tantissimi confrontati con i 128 iniziali dell’ASCII. Strada facendo però siamo arrivati a 21 bit, ossia oltre due milioni di glifi, che pare possano coprire tutte le lingue vive e morte conosciute, comprese tutte le varianti delle complicatissime grafie orientali. Il problema è ora riempire le tabelle, cosa che è stata fatta solo parzialmente. Insomma, ci si sta lavorando. Così un giorno, quando scriverò perché, nessuno al mondo riceverà perch☺. (MisterX)

SEZIONE SPECIALE EPOCA – MARILYN MONROE

cover-1954

- Dossier: Marilyn Monroe su Epoca -

cover-1954Questa pagina è dedicata a tutte le apparizioni di Marilyn sulle pagine di Epoca, dalla prima copertina del 1953 fino ai servizi commemorativi, ancora parecchi anni dopo la morte. L’atteggiamento del settimanale nel corso degli anni rispecchia in pieno l’opinione pubblica di allora: disprezzo superficiale dapprincipio, poi interesse affettuoso, poi amore e mitizzazione, fino al dolore incolmabile della perdita. Seguite con noi questa lunga (ma brevissima) cavalcata di una delle ultime autentiche dive del firmamento hollywoodiano, dei suoi incontri, dei suoi amori e dei suoi grandi dolori.

Ecco, per cominciare, alcune delle copertine a lei dedicate:

Copertine-Marilyn_Pagina_01Copertine-Marilyn_Pagina_03Copertine-Marilyn_Pagina_07Copertine-Marilyn_Pagina_09Copertine-Marilyn_Pagina_15Copertine-Marilyn_Pagina_21Copertine-Marilyn_Pagina_23

E qui invece ci sono tutte, corredate di indici in un unico file pdf:

Copertine con Marilyn (30 pagine pdf)

Il primo articolo, del 1953, è di Domenico Meccoli che seguì per molti anni la cronaca cinematografica. Marilyn, già una star negli Usa (oltre dieci film tra cui Giungla d’asfalto, Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde) viene trattata come “la bellissima di turno”, una bellezza che presto verrà dimenticata. La didascalia della foto qua sotto è piuttosto elequente. Il servizio è corredato da una breve biografia con qualche particolare scabroso.

Miss-torta-di-formaggioSi chiama Marilyn la dottrina di Monroe

Siamo ancora nel 1953. Domenico Meccoli firma questa recensione ancora non troppo benevola, che parte descrivendo l’ostentato ancheggiare dell’attrice:

Marilyn Monroe sulle Cascate del Niagara

Al principio del 1954 (N. 172 del 17 gennaio), un servizio a colori di 4 pagine dal titolo un po’ ammiccante, curato da Alfredo Panicucci, racconta della piccola disavventura di una distorsione alla caviglia e approfitta per delineare ancora una volta la biografia della “donna più desiderata del mondo”. Lo strano titolo dell’articolo viene svelato solo alla fine.

Le ventitrè curve di Marilyn

Siamo ancora nel 1954, in agosto. I pochi mesi che son passati dal servizio precedente hanno visto Marilyn sposare il suo primo, “vero” amore, Joe Di Maggio, dopo il divorzio dall’oscuro uomo che aveva sposato a 16 anni. È uscito anche un nuovo film: Come sposare un milionario. Una buona occasione per dedicare alla diva un servizio in due puntate (nn. 202 e 203, 15 e 22 agosto 1954), con tante foto, il matrimonio e un po’ di buoni sentimenti americani: famiglia, figli, patriottismo. Intanto Marilyn studia canto e vende un milione di copie di Diamonds are a glirl’s best friend

Faceva correre il cavallo di Gene Autry – Duemila persone al matrimonio segreto

Novembre, sempre 1954. Il “romanzo del secolo” tra il campione italoamericano, forse troppo geloso, e la diva di Hollywood termina con un divorzio dopo soli nove mesi. Ecco l’analisi di questo fallimento sentimentale, scritto da qualcuno che non sembra esattamente neutrale (n. 217, 28 novembre 1954).

Così finì un amore

Ormai il mito è consolidato. Anche in assenza di notizie vere e proprie sull’attrice, si sa che i lettori ne richiedono la presenza sulle copertine e nelle pagine dei rotocalchi. Epoca non si esime, presentando un breve servizio fotografico con Marilyn immersa in una vasca di schiuma, e un altro che presenta alcune improbabili “sosia” della diva. Siamo nell’estate del 1955:

Marilyn senza vecchioni

Siamo tutte Marilyne

Per festeggiare i suoi 29 anni e il suo nuovo stato di “single” Marilyn si è fatta costruire una villetta a Los Angeles, sulle rive del Pacifico. La inaugura a novembre del 1955, con un party e uno scherzo che paralizza il traffico lungo la costa e coinvolge la Polizia:

Marilyn padrona di casa

Party-1955

Al party per l’inaugurazione della sua nuova (e prima) casa sul Pacifico.

Nel natale del 1955 esce in Italia il Quando la moglie è in vacanza, di Billy Wilder. Il film riempie le sale e ottiene il consenso unanime della critica. Filippo Sacchi pubblica un piccolo saggio a sfondo antropologico, nel quale la Monroe viene paragonata alla classica bambola, trastullo dei bambini, ma in carne e ossa e per grandi. Sacchi non tralascia di denunciare il malcostume dei gestori delle sale, che permettono di riempirle oltre ogni misura, “peggio degli Zulù”.

Impagabile Marilyn bambola per grandi

Intanto Marilyn ha lasciato Hollywood e si è trasferita in un appartamento a New York. Spiega questa fuga con la paura di finire in un cliché fin troppo scontato, e con la voglia di migliorare la propria professionalità, con l’Actor’s Studio e fino al grande traguardo di Broadway. Il grande Nantas Salvalaggio, allora corrispondente da New York per varie testate italiane, realizzò un’intervista esclusiva. Si dice che si fece precedere da un enorme mazzo di rose rosse, e che suscitò la gelosia di Oriana Fallaci, che lo coprì di insulti perché sarebbe voluta essere lei la prima a intervistare la diva. Una parte dell’intervista viene pubblicata da Epoca nel marzo del 1956. Consigliamo vivamente la lettura:

Vacanze italiane per Marilyn – di Nantas Salvalaggio

Nel 1956 inizia forse il periodo più felice, sereno e appagante della vita di Marilyn Monroe, che culmina con la relazione con Arthur Miller. Nel giugno 1956 viene annunciato il matrimonio. Giornali, sociologi, corsivisti si lanciano nell’analisi di questa unione apparentemente squilibrata. Epoca dà l’annuncio nel numero dell’8 luglio:

0301-Arthur-MillerHa sposato il dramma

Il soggiorno newyorkese e il matrimonio con Miller tengono un po’ l’attrice lontana dal cinema. Il pubblico ha comunque bisogno che Marilyn compaia sui rotocalchi, per un motivo o per l’altro, per esempio questa Italia domanda del gennaio 1957:

Queste le peggiori strenne della loro vita

O questo breve servizio fotografico su una danza col marito nella cronaca mondana dell’aprile ’57:

Marilyn danza per 30 milioni di americani

Ancora nel 1957 e poi nel 1958, in attesa di altre notizie sulla sua vita artistica, eccola riapparire in un articoletto leggero sulla seduzione e in un servizio fotografico sul suo menage con Arthur Miller: una coppia serena in attesa di un bimbo.

Le tre maniere di sedurre gli uomini

Dietro la facciata di casa Miller

1958-429-strillo

 

Marzo 1959: eccola che gioca a travestirsi come le “divine” del passato, con la sua bellezza e il suo intuito. Le fotografie del servizio sono di Richard Avedon, uno dei più grandi ritrattisti del ’900, mentre la presentazione è dello stesso Arthur Miller:

Mia moglie Marilyn – Marilyn fa rivivere le grandi incantatrici

Un servizio sul famoso “Actors Studio” di Lee Strasberg, nel quale si formano i grandi attori di teatro e di cinema. Un po’ di storia della gloriosa accademia e una carrellata dei personaggi, tra cui la nostra Marilyn (giugno 1959):

La fabbrica dei grandi attori

Nella primavera del 1959 esce “A qualcuno piace caldo”, del grande Billy Wilder, con Marilyn nuovamente sul set dopo due anni di assenza. In questa pellicola l’attrice recita, canta e balla da grande professionista, ma a detta di Wilder si comporta sempre più da prima donna, ritardataria e inaffidabile. Qualcuno osa paragonarla all’altra “grande” del momento, la soprano Maria Callas.

Marilyn è bravissima ma è peggio della Callas

A-qualcuno

Nello stesso anno, nella sua rubrica “Diario di una scrittrice” Alba de Céspedes affronta l’argomento “Marilyn”. Il suo giudizio è molto benevolo e, se vogliamo, dissacrante: “Tra tanti progetti o rovine di donna, soltanto Marilyn Monroe sembra una donna compiuta, viva, e consapevole e felice di esserlo”.

Marilyn Monroe non è più un idolo

Il 14 febbraio 1960 Epoca pubblica la traduzione di un lungo articolo di Stephane Groueff, ancora una biografia romanzata che parte dall’infanzia triste con genitori adottivi alcolisti e poco di buono e culmina col successo planetario. Intanto lei sta girando Facciamo l’amore, con Yves Montand

Senza Famiglia: il romanzo di Marilyn

Il film con Montand ha fatto nascere insistenti voci di un flirt. I pettegolezzi vengono immediatamente tacitati con una “amichevole” cena a quattro: Montand-Signoret, Miller-Monroe, architettata per dimostrare che vi è solo una sincera amicizia tra i due attori…

La più bella vittoria di Marilyn

Settembre 1960. Un servizio fotografico mostra un volto stanco, sfiorito, forse angosciato. Esaurimento nervoso?

L’angoscia distrugge la bellezza di Marilyn

Clark Gable muore nel novembre 1960, pochi giorni dopo aver terminato le riprese del film The misfits (Gli spostati) con Marilyn Monroe e Montgomery Clift. Contemporaneamente finisce lil matrimonio tra Marilyn e Arthur Miller, forse a causa di un presunto flirt con Montand, forse a causa dell’insofferenza di Miller. Certamente però “scambiarsi le seggiole sul set porta male”, come dimostrano le foto in questo servizio.

Clark conosceva il segreto di Marilyn

Profilo-1960Siamo così arrivati al dicembre 1960. L’America ha appena eletto John Fitzgerald Kennedy alla Presidenza, in un duello all’ultimo voto con Richard Nixon. Una ventata di entusiasmo pervade la Nazione, ma in questi giorni Marilyn è triste, triste e sola. La si incontra, nel gennaio 1961, a pranzo a New York in compagnia del suo precedente marito, Joe di Maggio.

Joe è sempre stato il mio miglior amico

La rubrica “italia domanda” si occupa, nel luglio del 1961, di descrivere (o meglio far descrivere da personaggi famosi) il carattere della diva:

Spiritosa volitiva scrupolosa: questa è la vera Marilyn

Maggio 1962: dopo due anni di assenza dal set Marilyn è tornata ad Hollywood, dove sta girando Qualcosa da dare con Dean Martin. Appare dimagrita e in buona forma ma “diversa”, forse più matura e consapevole.

Più strana, più magra

Trucco-parrucco-300

 

Luglio 1962: Marilyn Monroe ha appena compiuto 36 anni. Un servizio spietato su Epoca la vuole mostrare invecchiata e nevrotica, ossessionata dalle rughe:

Un numero svela il suo crollo: trentasei

E infine l’agosto 1962 (non ci saremmo mai voluti arrivare):

Strillo-cover-morte

Il 5 agosto 1962 Marilyn Monroe viene trovata morta nella camera da letto della sua casa a Brentwood, Los Angeles. Il primo numero utile di Epoca che possa coprire la sconvolgente notizia è quello del 12 agosto. Vengono pubblicati, in traduzione, un articolo di Edward Collins e una cronaca ora per ora apparsa sul New York Herald Tribune, per un totale di 13 pagine

Perchè è morta Marilyn Monroe – Questa cronaca ha commosso l’America

La settimana successiva viene proposto un bellissimo ricordo: un’intervista, o meglio una chiacchierata confidenziale raccolta dal giornalista Richard Meryman pochi giorni prima della tragedia, illistrata dalle magnifiche foto di Allan Grant:

Sono una povera bambina abbandonata…

1962-foto-GrantÈ cominciato il dopo-Marilyn

Il dopo-Marilyn comincia subito dopo la morte dell’attrice, con la raccolta di tutto il materiale fotografico, archivistico, cartaceo riguardante la sua vita. Ogni tanto, da allora e per sempre, salta fuori un nuovo articolo, un’intervista con qualche testimone, governaante, collega, regista o altro. Tutt’ora, ogni tanto, Marilyn Monroe appare sulla copertina di un rotocalco o in un servizio televisivo, con qualche “nuovo” dellaglio della sua straordinaria vicenda. E, a farla da padrone, sono senza dubbio le fotografie.

AnniversarioNell’agosto 1963, in occasione dell’anniversario, Epoca dedica all’attrice una biografia per immagini:

Marilyn: il suo ricordo è già una favola

Corea-1954

Sempre nel 1963, a partire dal numero 673 (18 agosto), tre servizi fotografici ricordano le fasi salienti della vita dell’attrice, dall’arrivo del successo travolgente fino agli anni della depressione. Li abbiamo raccolti in un unico documento di 20 pagine:

L’Album di Marilyn

Siamo a febbraio del 1964. Arthur Miller porta in teatro una commedia che alcuni definiscono “indecente”, nella quale racconta la vita coniugale con l’attrice e la sua morte disperata:

Ho ucciso mia moglie Marilyn?

Epoca non parlerà più di Marilyn Monroe per i successivi anni, cioè per tutti gli anni ’60 e i primi ’70. Il ricordo si risveglierà in prossimità del decimo anniversario, come sempre succede. Ecco un numero del 1972 dove viene pubblicata una breve struggente poesia dell’attrice:

Ninna nanna Marilyn

Siamo nel 1973, il mito ormai si è consolidato, ma dalle celebrazioni si passa alle speculazioni sulla vita della diva. Salta fuori il dossier Kennedy: Fu l’amante del Presidente? È vero che sognava di sposarne il fratello Bob? È vero che fu “scaricata” dalla Fox senza tanti complimenti pochi mesi prima della morte?

Grandi-miti

Ecco un lungo servizio per la serie “I grandi miti del cinema”, firmato Francesco Madera, apparso il 27 maggio 1973:

Marilyn, l’amore segreto per Bob

Nel 1979 esce un corposo dossier: le rivelazioni di Lena Pepitone, la cameriera che le era vissuta accanto negli ultimi cinque anni. Si tratta chiaramente di un’operazione commerciale, ma serve a tenere ancora vivo il mito. Epoca lo pubblica in quattro puntate con un vasto corredo di foto, alcune molto sexy e inedite:

Quello che non avete mai saputo di Marilyn

Arriviamo al 1982: vent’anni dopo la misteriosa morte del simbolo sexy del ’900. Un servizio in tre puntate racconta ancora una volta la vita tormentata e mostra le immagini, aggiungendo quelle inedite che negli anni precedenti erano state proibite, tra cui la famosa foto del calendario, scattata prima dell’inizio della carriera cinematografica, insomma l’immagine da cui tutto partì:

NudaBella più di Venere

Così si conclude il materiale in nostro possesso, ma non certamente la storia del mito di Marilyn Monroe, che ci è piaciuto seguire e rivisitare nella cronaca dei suoi stessi anni, prima che il tempo e il merchandising la trasformassero in una sagoma di cartone.

(ultimo aggiornamento 19 febbraio 2016)

Stiamo pensando di raccogliere tutta la documentazione su Marilyn Monroe in un libro-dossier con dvd. Se sei interessato ti preghiamo di farcelo sapere, dato che abbiamo bisogno di un certo numero di adesioni per poter avviare la pubblicazione. Senza impegno s’intende! scrivici all’indirizzo generale info@xedizioni.it

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Marilyn, oh Marilyn!

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1953-141Nominare Marilyn Monroe (così come Einstein, Che Guevara, The Beatles e pochissimi altri) significa nominare un mito universale che resiste, seppure consumato, logorato, ridotto a icona. Immagini che ognuno riconosce e a cui attribuisce un personale significato. Immagini stampate sulle t-shirt o sulle tazze da caffè insieme a Snoopy  e a Jim Morrison. Un mito è un mito, e questo basta. Riconoscibile da tutti, conosciuto forse da nessuno.

L’ascesa di Marilyn nel firmamento dei miti avvenne in brevissimo tempo. Due furono gli ingredienti di quel successo: la sua incredibile bellezza e la sua, altrettanto incredibile, storia. A differenza di molte belle attrici sue coetanee, Marilyn a 20 anni aveva una storia da raccontare, ed era una storia con delle zone d’ombra.

La prima apparizione di Marilyn Monroe su Epoca fu sul numero 141 (14 giugno 1953), con una bellissima copertina e un servizio di Domenico Meccoli, poco lusinghiero in verità. Marilyn veniva dipinta come la “bellissima di turno”, un’attricetta di scarso valore artistico, ma molto dotata per altri versi, oltre che spregiudicata. Poi però fu amore, adorazione, e infine mitizzazione.

Pensiamo di poter contribuire a rendere giustizia e spessore a questo personaggio e al suo mito ormai consunto, pubblicando in una pagina della sezione download tutti i servizi e le numerose copertine di Epoca che la ebbero come protagonista, fino al giorno della misteriosa morte e poi ancora per tanti anni. E infatti, ancora se ne parla.

Il lato interessante e originale di questa presentazione “per cronaca” è quello di poter viaggiare attraverso la vita dell’attrice come suoi contemporanei, gioire dei suoi successi, commuoversi per le vicende sfortunate, vederle passare accanto i grandi della storia, non solo cinematografica. E poi i matrimoni, i tentativi di normalizzare la vita creando una famiglia con bambini, i continui fallimenti privati in stridente contrasto con i trionfi pubblici.

Grazie a chi vorrà seguire questa avventura, e magari lasciare un commento su facebook o scrivendo direttamente a noi: info@xedizioni.it

 Marilyn Monroe su Epoca

 [Redazione, 15 giugno 2015]

 


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Enciclopedia e Linotipia

Linotype

Bimbo-enciclopediaHo cominciato a leggere negli anni ’50 del secolo scorso. Si leggevano libri per ragazzi e si sfogliava l’Enciclopedia dei ragazzi Mondadori. L’Enciclopedia era organizzata in un modo molto speciale, assai diverso da quelle per adulti. Non c’erano voci esposte in ordine alfabetico, ma cosiddetti “libri”, che correvano tra i dieci volumi dell’opera, tutti spezzettati un po’ qui un po’ lì, con un complicatissimo “indice ragionato” alla fine, che faceva riferimento a numeri di pagina a quattro cifre. Bisognava essere molto intelligenti per trovare qualcosa. Oppure, semplicemente, si sceglieva un volume e lo si sfogliava pagina per pagina, riempiendosi gli occhi e il cervello delle varie informazioni e figure, e saltando di libro in libro. In ciascun volume ti appariva più volte il “Libro della poesia” e il “Libro dei passatempi”, e così via. Tra gli altri c’era il “Libro delle conquiste umane”, che era quello che mi affascinava maggiormente, dove si parlava qua di ferrovia, là di radio, di ponti sospesi, di energia nucleare. E anche di macchinari da stampa. Mi ricordo di aver contemplato per ore le figure che spiegavano il funzionamento della meravigliosa macchina linotype, per cercare di capire come fosse possibile arrivare a inventarne una, che razza di cervello doveva avere quel tedesco che l’aveva progettata. Era bello e un po’ eccitante avere per le mani un libro che ti spiegava il modo stesso in cui era stato composto, stampato e rilegato. Pensavo, negli anni ’50, che il futuro sarebbe stato tutto molto automatico, meccanico e rumoroso come quel macchinario, e tutto avrebbe profumato di grasso, come la macchina da scrivere di mia nonna.

Ora le cose sono un po’ cambiate, e come sempre il futuro non somiglia minimamente alla proiezione del passato. I linotipisti sono ormai tutti in pensione, e così pure i correttori di bozze, i telescriventisti e tutti gli altri, colonne portanti della vecchia, moderna tipografia.

Recentemente ho ripreso in mano quell’enciclopedia, per spostarla da uno scaffale a un altro, e son subito voluto tornare a quell’articolo, quel capitolo del “Libro delle conquiste umane” che spiega come nasce un libro. E siccome in quell’articolo se ne fa riferimento, ho riletto anche il capitolo che spiega come nasce un giornale. Se li leggi, almeno sai cos’è uno stereotipo e da dove deriva il nome della linotype. Ecco, per i più curiosi, le scansioni dei due articoli (da l’Enciclopedia dei ragazzi, Mondadori 1956) (MisterX)

 Come si fa un giornale

Come nasce un libro

Linotype

“La Linotype, miracolo della meccanica”

 

 


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24 maggio

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battaglieroOSi celebrano i 100 anni dall’intervento italiano nella prima guerra mondiale, avvenuto, dopo quasi un anno dall’inizio del conflitto europeo su una spinta di riscatto, gloria, conquista di territori. È il famoso “24 maggio”, in seguito coperto da un alone di romanticismo e di retorica. Ecco una breve cronaca di quei giorni annotata senza retorica da Attilio Frescura, nelle prime pagine del suo “Diario di un Imboscato”. (L’immagine “Battaglieri” è di Enrica Massidda)

I “Terribili„

“…ad Asiago, dove si era certi che ci sarebbe stata la guerra e dove i bersaglieri anticipavano le prove del loro eroismo, prendendo a cazzotti i fanti della Brigata Ivrea “la buffa”, che doveva insegnare loro, più tardi, che l’eroismo è un altro.

È la Brigata Ivrea che ha organizzato ed eseguito il trasporto dei proiettili al forte Verena. Un forte che non ha nessun campo di tiro e che il giorno 24 Maggio 1915, alle quattro del mattino, ha lanciato il primo colpo di cannone.

II 29 venne dato l’ordine di attacco, con delle disposizioni da piazza d’armi e da grosse manovre.

Si prepararono e si chiusero i cofani contenenti le più inutili cose di guerra. E si presero delle provviste, per vivere i giorni di marcia necessari per arrivare a Trento.

Lo Stato Maggiore della Divisione, in automobile e a cavallo, si mosse… Si videro ufficiali fasciati di cinghie lucide ed armati speroni, carichi di carte to­pografiche e di binocoli, correre con aria preoccu­pata, seguiti da coppie di carabinieri a cavallo. Qua è la, persino, qualche elmo lucente di cavalleria.

All’alba del 30 Maggio le truppe mossero: il con­fine si era passato nella notte. Alle case di Vezzena una mina ci dette i primi feriti e il primo morto : il soldato Salvatore Randazzo.

La mina, qualche fucilata, qualche reticolato in embrione, quei feriti e quel morto turbarono lo Stato Maggiore, che credette di aver sostenuto una grande battaglia. Il Comando, esausto, diede l’ordine di sospendere 1′“avanzata„. I soldati, nuovi alla guerra, storditi, sbalorditi, tornarono alle trincee in cerca degli ufficiali e gli ufficiali, corsero affannosamente in cerca di reparti, nei quali era avvenuto un frammischiamento fantastico.

Avvennero dei casi allegri: un grosso ufficiale sente il rumore caratteristico degli otturatori dei fucili che si armano: allora, supponendo di essere scam­biato per un austriaco, si avanzava carponi, urlando :

—       Alt! non sparate! sono l’Italia! — E, in fretta, aggiunge la parola d’ordine, la controparola, poi il suo nome… Avrebbe anche dato l’anima, purché gli lasciassero la pelle, questo… Italia!

Altro episodio :

Una pattuglia si avanza, gira, si perde. Improvvisamente si trova di fronte a un’altra pattuglia. Allora tutte e due, senza guardarsi, urlano:

—         Mi arrendo!

[...]

In tutta la battaglia non si è visto un austriaco. Dovevano ridere, quelli altri, vecchi della guerra, dalla parte opposta, sentendo tutto quel brusìo e quell’ affanno.”

(Attilio Frescura: “Diario di un imboscato”, III edizione 1921)

La donna sarda – Giuseppe Dessì

(Conversazione alla Radio trascritta e pubblicata da Rai-Eri, 1949)

 ”Lo scrittore inglese Lawrence ci ha lasciato un mirabile ritratto della Sardegna in un suo libro che dalla Sardegna prende il titolo (Sea and Sardinia) e che Elio Vittorini ha tradotto in parte nelle Pagine di Viaggio edite da Mondadori. Lawrence ha trovato in Sardegna il tipo virile ideale secondo la sua concezione che esalta le forze primigenie della razza quali si manifestano nella distinzione e insieme nell’armonia dei sessi. Certamente pochi altri paesi si prestano meglio a una simile interpretazione. Del resto egli non fu il solo ad esaltare la fierezza e la virile dignità dell’uomo sardo. Se ne è parlato fino alla nausea, da Padre Bresciani in poi, fino a farne un luogo comune letterario; e tutte le buone qualità morali che ai sardi si riconoscono universalmente, quali la fedeltà, l’amore per la patria e per la famiglia, il coraggio, la lealtà, ecc. ecc., vengon fatte discendere da quella qualità fondamentale. Una volta fatto questo riconoscimento, sia lecito, a me sardo, porre una domanda. Come mai un popolo così ricco di qualità morali e tutt’altro che privo di intelligenza (chiunque sia stato in Sardegna sa che la media dell’intelligenza è elevatissima) non ha lasciato tracce di sé nella storia; come mai la Sardegna non ha avuto nessun grande uomo? Si annoverano insigni studiosi, giuristi, qualche storico, qualche buon generale, ma veri e propri grandi uomini no. Sembra sia negata, a noi sardi, quel tanto di fantasia che occorre per essere dei grandi uomini. Solo due personaggi della storia sarda hanno questo carattere di fantasia: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Ma sono donne, non uomini. Sarebbe interessante studiare il carattere di queste due donne per arrivare a stabilire fino a che punto la loro forza riposi su una concezione matriarcale della vita che solo in parte contrasta con la famosa irsuta virilità degli uomini sardi. Perché una specie di matriarcato vige, in realtà, in Sardegna. Direi un matriarcato clandestino, che non è tornato alle antiche forme barbariche solo per una innata delicatezza e discrezione della donna sarda. Con tutto il rispetto che ho per i miei conterranei di sesso maschile (e con loro buona pace) devo rivelare un segreto che pochi conoscono. La armonia tra i due sessi, che Lawrence esaltò parlando della Sardegna, in realtà non esiste. In Sardegna la società è formata da due parti che legano male, come una medaglia fusa in due metalli diversi. Se noi consideriamo la vita di un qualunque villaggio sardo – la vita di tutti i giorni, in tutti i suoi aspetti – noi vediamo che esiste una differenza profonda tra la vita degli uomini e quella della donna; tra la concezione del tempo che ha l’uomo e quella che ha la donna. E vediamo che tutto ciò che dipende dalla donna funziona, mentre tutto ciò che dipende dall’uomo funziona male. È l’uomo che costruisce la casa, ma le case sarde sono tra le più brutte e le più miserabili che si possano vedere sulla faccia della terra: la donna non solo rende abitabili queste povere case, ma dà loro un’impronta di civiltà con poche cose essenziali. I tappeti che essa fabbrica sono vere e proprie opere d’arte. L’uomo fa le strade, ma le fa male e non ne cura la manutenzione. I veicoli che percorrono queste strade sono ancora quelli dell’età preistorica. Non sarebbe possibile trasportare da un paese all’altro o dal podere alla casa altro che delle pietre, o tutt’al più delle patate. Invece si trasportano dolci, e chi è stato in Sardegna sa quanto squisiti e delicati: si trasportano grazie alle donne. Sono esse che viaggiano con un cestello sulla testa. Io amo il loro lungo passo matriarcale e leggero sotto le vesti scure.

Guai se in Sardegna non ci fossero simili donne. Saremmo senza remissione riprecipitati sulle barbarie di cui stiamo sempre sull’orlo. Pur essendo cessate ormai le ragioni che determinarono quella sorta di urbanesimo che paralizza la vita rurale sarda, i nostri contadini continuano ad abitare grossi agglomerati urbani, e la campagna è deserta. Il sardo, pur in uno spazio ristretto, si sposta come un nomade per andare a coltivare il grano o a pascolare le pecore, dorme all’addiaccio, si cambia la camicia una volta al mese. La donna lo raggiunge come può, gli fa sentire la sua presenza costante, vigile. E quando il contadino o il pastore sperduto nella solitudine trae dalla bisaccia il tovagliolo di lino in cui è avvolto il pane, si spande di là, non soltanto materialmente, la fragranza della casa. Pane e lino si rifanno a una tradizione essenziale quanto antica di civiltà, e solo la donna ne è depositaria e custode. E non credo che sia esagerato affermare che le catalogate virtù di cui noi, uomini sardi, ci fregiamo, e che rientrano nella categoria generica e appariscente della virilità, non siano altro che riflessi di vere, profonde, silenziose e solide virtù femminili a cui nessuno ha finora pensato di dare un nome.

Benché sardo, qualche volta guardo i miei sardi con sorpresa. Non so del tutto spiegarmi certi loro modi, certo piglio eroico. Non che siano degli spacconi: sono sobri nei gesti e nella parola. Pur tuttavia hanno un certo modo di buttarsi il mantello sulla spalla come se andassero a compiere chi sa quali imprese. Invece vanno semplicemente a riportare all’ovile i bidoni vuoti. Si mettono in testa la berretta come un elmo antico, e questo è un po’ esagerato, anche se vanno a caccia del cinghiale. Forse, se invece del mare avessero avuto intorno ai loro monti le pianure dell’Asia, questi cavalieri sarebbero stati dei conquistatori. Anzi saremmo stati, perché ci sono anch’io. Ma noi abbiamo paura del mare. Ne stiamo a rispettosa distanza. E’ questo che ci manca per essere davvero eroici, davvero come ci vedeva Lawrence. Abbiamo una paura ancestrale, invincibile. Chi sa quale immane naufragio ci ha travolti in tempi antichissimi. Basta guardare un sardo per capire che non va d’accordo con l’acqua. Persino i nostri cavalli, quando vedono il mare, puntano i piedi. Ma è la nostra paura che si trasmette ad essi come una scossa elettrica. Sta a noi riscattarcene; ma finora non ci abbiamo ancora pensato seriamente. Io penso alle nostre donne come a tante Penelopi senza Ulisse. Per secoli e secoli sono state al telaio a tessere quei tappeti di cui, noi uomini, siamo fieri, e che sono, in realtà, molto belli. Ma quei tappeti avrebbero il valore che noi uomini gli attribuiamo solo se fossero stati tessuti durante la nostra assenza, mentre noi navigavamo in mari lontani, ed esse erano là, nella antica casa, ad aspettarci. Invece noi eravamo appena a qualche chilometro di distanza, a mungere le nostre pecore, oppure seduti per ore e ore a canticchiare qualche nenia e a tagliuzzare col nostro temibile coltello un gambo d’asfodelo. Mi si dirà che esagero, che i sardi hanno dato prova di esser dei buoni soldati e di poter essere, all’occorrenza, temibili banditi. D’accordo; ma era il meno che potessero fare per tentare d’adeguarsi a donne come le nostre.

Donne così fedeli, così costanti, così coraggiose, così resistenti alla solitudine eran fatte per esser mogli di uomini che non avessero paura del mare e dello spazio, mogli di grandi navigatori. Io me le immagino sedute al loro telaio, ma al centro di continenti e di oceani, punto di partenza e punto di approdo. Povere mogli di eroi deluse! Solo al tempo dei nuraghi i sardi fecero qualcosa di veramente importante. Quella volta furono gli uomini, credo, perché si trattava, per costruire quelle torri a tronco di cono che servivano da fortilizi, si trattava di trasportare e collocare a regola d’arte, dopo averli squadrati, massi di granito del peso, talvolta, di qualche decina di tonnellate. E se si pensa che di queste torri in Sardegna, tra grandi e piccole, se ne contavano circa ottomila, si deve ammettere che i sardi dovessero essere abbastanza bene organizzati. Inoltre, per fare opere del genere, bisognava avere cognizioni architettoniche che presuppongono un alto grado di civiltà. Ebbene, ciò nonostante, non si trova una sola iscrizione dell’età nuragica. È uno dei tanti misteri che gli archeologi non riescono a spiegare in Sardegna. Ma ciò che rende il mistero più interessante, è che questa mancanza di iscrizioni si accorda perfettamente con la ripugnanza innata e persistente nei secoli che i sardi hanno per l’alfabeto. I1 nostro analfabetismo è granitico, nuragico, eppure ci sono dei sardi analfabeti e tuttavia intelligentissimi e anche, in certo senso, civili. Ciò può essere: basta pensare, per esempio, a Carlo Magno. I1 sardo odia l’alfabeto come odia l’acqua. Anche l’alfabeto è spazio, come il mare. Sono due ripugnanze che si spiegano a vicenda. Non così per la donna. La donna sarda non odia punto l’acqua: basta vederle quando vanno al fiume, estate e inverno, indifferentemente. E di solito sanno leggere e scrivere. Ma il fatto veramente degno di considerazione – che è anche il secondo segreto che mi proponevo di rivelare – è questo. Gli archeologi non hanno abbastanza apprezzato il contributo dato dalle donne in genere alla civiltà nella creazione dei simboli che divennero poi ideogrammi, geroglifici e, infine, lettere dell’alfabeto. Forse nessuno ha osservato la delicatezza femminile dei più antichi ideogrammi, tanto egizi che cinesi. Certamente è una mano di donna che li ha tracciati. Potrei darne prove sicure. L’uomo, solo in seguito, col suo razionalismo, li ordinò e coordinò; e ne nacquero geroglifici e alfabeti. Ebbene, la donna sarda non mancò, nemmeno in questo, al suo compito. Osservate i fregi dei suoi tappeti, i ricami delle sue tele di lino: cervi, colombi, galli, fiori… Non sono altro che simboli di un linguaggio ideografico di cui essa offrì all’uomo i rudimenti, ma che l’uomo sardo non seppe o non volle sviluppare. Dò ai miei conterranei questo modesto consiglio: attenti al linguaggio ideografico delle nostre donne! Scherzi a parte, impariamo dalle nostre donne a fare tutto ciò che finora non abbiamo fatto e che avremmo dovuto fare da secoli. Perché non basta essere fieri e virili per essere mariti di Penelope.”

Sì, ma non è gentilezza

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nonègentilezza_Ci fu un periodo, diciamo a cavallo tra i “figli dei fiori” e gli “indiani metropolitani”, e cioè fino alla fine degli anni ’70, in cui ci si alimentava di utopie sociali più o meno anarcoidi. Uno dei capisaldi fu quello della “comune”, comunità sociale basata sulla condivisione spontanea di competenze, servizi, luoghi eccetera. Per non parlare dell’amore libero. L’idea, come sappiamo, attecchì e funzionò in alcuni Paesi civili, come la mitica California o l’Olanda, molto meno o addirittura niente nel sud Europa. Gli ostacoli sono principalmente culturali: non eravamo ancora pronti per superare la famiglia, o meglio il familismo, che ci costringe a vedere il prossimo come possibile concorrente, o peggio nemico, a meno che non sia un parente stretto.

La mia posizione di allora era di grande apertura ed entusiasmo verso queste sperimentazioni, a tutti i livelli. Mi pareva sempre una buona idea, anche semplicemente quella di tenere un garage condiviso tra tanti amici, in cui tutti potessero ripararsi la bici o il motorino e farsi aiutare in caso di bisogno, in cambio dei propri attrezzi e della propria disponibilità. Purché ciascuno facesse la sua parte con lo spirito giusto: rimettere a posto gli attrezzi, pulire dove si era sporcato, non portarsi via flaconi d’olio o pezzi di ricambio, pagare la propria quota di spese. Bastava semplicemente rispettare delle regole non scritte. È inutile dire che non funzionò quella del garage, e non funzionarono altri esperimenti simili. Questi fallimenti non hanno certamente influito positivamente sulla mia stima nei confronti della natura umana in generale.

Poi arrivò Internet a risvegliare gli entusiasmi: cosa c’è di meglio, per un ex anarchico amante delle utopie, che un ambiente virtuale grande come il mondo nel quale condividere liberamente e responsabilmente le proprie risorse: idee, documenti, musica, sapere, insomma tutto?

È per questo che, avendo un hobby, o meglio una grande passione che coltivo dall’adolescenza, pensai subito di creare un sito nel quale mettere in condivisione la mia esperienza e competenza, il bagaglio di documentazione raccolto in una vita, come semplice e spontanea risposta a tutto il materiale nuovo e gratuito che potevo attingere dalla rete. Anche qui la regola, non scritta, è molto semplice: trovo le informazioni che cerco perché qualcuno le ha messe a disposizione, in modo fruibile e quasi sempre gratuito. Come minimo, per ringraziare e rispettare la regola, rendo disponibile quello che ho. In questo modo il mondo diventa un po’ migliore. Non lo faccio perché sono gentile, come qualcuno potrebbe pensare. Lo faccio perché sento il dovere di farlo. Spirito di servizio, senso della civile convivenza.

Per questo trovo irritante, ogni volta che qualcuno mi chiede una consulenza e la ottiene, oppure usa in qualche modo il mio tempo e la mia disponibilità, sentirmi dire: “grazie, lei è molto gentile”. Come se la gentilezza fosse una qualità innata, che spinge chi ne è affetto a comportarsi in un certo modo, e fornisce un alibi a chi non vuole accettare le semplici regole: “lui è una persona molto gentile (io no)”. Se prelevo continuamente dalla cassa comune e non porto mai niente, sono una perdita per il sistema anche se ogni volta ringrazio gentilmente. Se metto a disposizione il poco che ho, ma che ho solo io, allora sono una ricchezza per il sistema. Per la legge dei grandi numeri, esisterà molto probabilmente nel mondo almeno una persona che ha bisogno esattamente del mio contributo, e sarà felice di trovarlo disponibile, e mi ringrazierà in modo diretto o indiretto, e non penserà che sono gentile, ma semplicemente che ho fatto quello che mi spettava fare. (Mister X)

 


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Un’altra Expo in un’altra Milano

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Tunnel-Sempione-ParcoEra il 1906, l’Italia era ancora molto giovane e forse per questo piena di energie. Anche quel nuovo secolo sfavillante di luci elettriche, sferragliante di ferrovie e di motori contribuiva a creare ottimismo e fiducia nell’umanità. Prprio in quell’anno, con soli due anni di ritardo rispetto al programma, si era inaugurata una delle più colossali imprese dell’ingegneria di allora: lo scavo del tunnel del Sempione, una doppia galleria ferroviaria di quasi 20 chilometri destinata a rivoluzionare i trasporti tra l’Italia e la Francia. Basti pensare che la strada preesistente, il Valico del Sempione voluto da Napoleone, richiedeva circa nove giorni di attraversamento in diligenza. Ora, con questo tunnel modernissimo, bastavano poche ore di treno per trovarsi in Svizzera.

Con perfetta sincronia, all’inaugurazione del Sempione seguì, dopo pochi mesi, l’inaugurazione dell’Esposizione Internazionale, avente come tema proprio i trasporti, ed intitolata La scienza, la città e la vita. Cifre da capogiro, sia come numero di visitatori, sia come imponenza di costruzioni, Paesi partecipanti, novità e attrazioni. Le due zone della città dedicate all’Expo furono collegate con una ferrovia elettrica sopraelevata, che da sola attirava migliaia di visitatori e turisti. Malgrado un grosso incendio che distrusse alcuni padiglioni, il successo fu decretato unanimamente da tutti, e per molti anni Milano mantenne le tracce di quella grandiosa manifestazione. Lo stesso Parco Sempione, allora “Piazza d’armi”, deve la sua attuale sistemazione anche all’Expo del 1906.

Nell’area Download abbiamo messo due interessanti estratti dell’Almanacco Italiano degli anni dell’Expo. Sono resoconti di prima mano, cronache e testimonianze di un’altra Expo in un’altra Milano. Con tanti auguri per questa Expo 2015 in questa Milano, che nonostante tutto ancora una volta ce la farà. (Mister X, aprile 2015)

 


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L’Expo di Milano del 1906

Tunnel-Sempione-Parco

La Grande Esposizione Internazionale del 1906: “La scienza, la città e la vita”. Si tenne a Milano dal 28 aprile all’11 novembre e aveva come tema i trasporti, il dinamismo, lo sviluppo sociale. Ebbe un enorme successo e lanciò all’estero l’immagine di un’Italia ormai matura, capace di grandi imprese umane e industriali. L’occasione era stata l’inaugurazione, lo stesso anno, del tunnel del Sempione, il più lungo e difficile mai scavato fino ad allora, impresa italo-svizzera destinata a rivoluzionare i tempi e i modi dei trasporti attraverso le Alpi (100km in meno per raggiungere Parigi da Milano). L’Almanacco Italiano, volumetto annuale pubblicato da Bemporad, si occupa dell’Esposizione nei numeri del 1906 (annuncio) e del 1907 (resoconto), con due lunghi servizi. Li abbiamo digitalizzati e li mettiamo volentieri a disposizione dei lettori, scaricabili gratuitamente.

Milano, il traforo del Sempione e l’Esposizione del 1906 (50 pagine, illustrato – Almanacco Italiano 1906)

L’Esposizione di Milano del 1906 (32 pagine, illustrato – Almanacco Italiano 1907)

Avvertenza: per mantenere la massima leggibilità delle pagine abbiamo effettuato scansioni ad alta risoluzione, ottenendo dei file piuttosto “pesanti”. E’ consigliabile scaricarli sul proprio computer prima di cercare di aprirli.

The Tassajara Bread Book

Tassajara

TassajaraIl Libro del Pane della comunità buddista di Tassajara, in California. Ricette base per tanti tipi di pane, biscotti, dolci. in inglese di facile lettura, illustrato. Prima edizione del 1970.

162 pagine, pdf, riprodotto accuratamente in una versione stampabile.

Puoi scaricarlo gratuitamente qui

Diario di un imboscato

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Diario-di-un-imboscatoLa prima guerra mondiale è stata una delle più orribili e devastanti tragedie della storia, non occorre leggere alcun libro per trarre questa conclusione. Basterebbero le cifre che ci vengono continuamente ricordate, sui milioni di morti e di feriti. Tuttavia, tra i tanti libri che sono stati scritti sull’argomento, questo forse merita attenzione. Intanto perché suscitò molto scalpore quando uscì, a causa dell’atteggiamento dissacrante e poco celebrativo, per non dir polemico. Si tratta di un diario-cronaca, registrato giorno per giorno, mese per mese sul fronte italiano del conflitto, dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla smobilitazione del 1918.

Attilio Frescura è uno scrittore, romanziere, novellista, dotato di senso dell’osservazione e di una sottile, persistente ironia, specie nei confronti di sé stesso, del potere e delle istituzioni in generale. Il che trasforma questo libro in una lettura terribile ma alla fine avvincente, se non proprio piacevole.attilio-frescura-il-diario-di-un-imboscato

200 pagine, pdf, riproduziona anastatica molto accurata stampabile della terza edizione del 1921, con tre prefazioni dell’Autore, euro 6,90 – Per acquistarlo scrivici all’indirizzo info@xedizioni.it



 

 

 

 

SEZIONE SPECIALE EPOCA – MARIANGELA MELATO

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M-Melato-1982In seguito a una richiesta dell’Associazione Mariangela Melato, abbiamo estratto dall’Archivio di Epoca una raccolta di articoli e servizi fotografici sulla grande attrice apparsi sulla rivista dal 1972 all’82. Dalla scoperta della giovane attrice milanese fino all’affermazione internazionale al cinema e in teatro. Una sezione che merita un posto speciale nella nostra biblioteca. La mettiamo come sempre a disposizione di tutti gli appassionati.

Vol. LXXXVIII n. 1138, 23 luglio 1972 – “Mariangela Melato la milanesina del momento”

Vol. XCIV, n. 1225, 24 marzo 1974 – “La strega di Brera” (serv. colori)

Vol. XCVIII, n. 1275, 15 marzo 1975 – “L’Olimpia furiosa” (serv. colori)

Vol. XCIX, n. 1280, 19 aprile 1975Copertina + art. “Dentro i misteri di Parma” (Bevilacqua)

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Vol. CI, 1313, 6 dicembre 1975 – “C’era una volta la famiglia” (Ginzburg)

Vol. CVI, n. 1370, 5 gennaio 1977 – “Parola di Mariangela Melato” (Arbore)

Anno XXXI, n. 1573, 29 novembre 1980 – “Meditate, gente, meditate” (trafiletto con Arbore)

Anno XXXIII, n. 1631, 8 gennaio 1982 – “Guardatemi e non dite più che sono brutta” (serv. colori)

Numeri due al femminile

anneFino a meno di cinquant’anni fa la donna sposata perdeva il cognome “da nubile” e assumeva quello del marito. Questo valeva, e vale ancora in tanti Paesi compresi gli USA, anche per le donne in carriera, le professioniste, le artiste. Figuriamoci nel 1931. Figuriamoci se tuo marito ha una personalità ingombrante e gode di fama e notorietà. Sarai relegata al ruolo di “moglie di…”

Anne Morrow, moglie di Charles Lindbergh, avrebbe potuto benissimo accettare questo ruolo, godere di notorietà riflessa, frequentare i salotti dove la sua sola presenza sarebbe bastata a creare l’atmosfera avventurosa delle grandi imprese aviatorie. Senza rischiare niente. Ma Anne non ci sta, decide di camminare a fianco del marito diventando aviatrice anch’essa, e anche marconista per rendersi utile come secondo ufficiale a bordo dei piccoli idrovolanti di allora.

Poi verranno anche periodi bui, il rapimento e la morte del figlio, le scelte politiche sbagliate, e le avventure sentimentali con de Saint Exupéry, ma nei primi anni, prima che tutto ciò accadesse, Anne Morrow Lindbergh fu semplicemente una donna libera, scrittrice e aviatrice, per niente “numero due” rispetto a Charles.

Io personalmente la conobbi tanti anni fa, in uno strano volumetto che stava nella libreria di famiglia e il cui titolo “A oriente per il nord” mi appariva misterioso e poco invitante. Molto più invitante era l’immagine di copertina, che mostrava un itinerario complicatissimo dall’America alla Cina, e la prima foto del frontespizio, dove c’era un piccolo aeroplano da cui sporgevano due teste di aviatori. Poteva essere un racconto di combattimenti e avventure, o di esplorazioni. Per questo poi alla fine mi decisi a leggerlo. Mi piacque allora, anche se non c’erano combattimenti e le avventure erano appena accennate, perché narrava altro. Narrava del viaggiare scomodo, del rimbalzare tra una civiltà e un’altra di queste che hanno scelto di vivere ai confini delle zone abitabili, dove i giornali arrivavano una volta all’anno con la nave rompighiaccio, tutti insieme quelli dell’anno prima, e gli abitanti del villaggio li leggevano uno al giorno, tenendosi rigorosamente un anno indietro rispetto alla storia, ma conservando la buona abitudine del quotidiano, come in una Macondo artica.

Narrava dei vari modi di salutare, e del perché il sayonara dei giapponesi ha un sapore diverso dagli altri, più maturo e consapevole, e del motivo per cui la casa del tè non deve avere muri di pietra ma pareti di carta, e le finestre devono essere ad altezze differenti.

Tutto questo raccontato da una donna, mentre forse un uomo avrebbe parlato solo di consumi di benzina, di avarie al motore e di venti favorevoli. E forse della sua superiorità rispetto alle popolazioni incontrate.

Ecco perché questo libro fu un bestseller negli anni ’30 e conquistò un ambito premio nel 1935, come miglior nonfiction dell’anno, e perché abbiamo deciso di inserire “A oriente per il nord” tra i nostri Numeri Due, questa volta declinati al femminile. Buona lettura! (Mister X)

A Oriente per il Nord – In idrovolante da Washington alla Cina

Ebook Xedizioni 2015, € 3,99

A Oriente per il Nord

OrienteperAnne-350

OrienteperAnne-350Tutti conoscono la famosa trasvolata atlantica di Charles Lindberg del 1927. In seguito l’aviatore compì altre imprese, destinate ad aprire la strada a rotte commerciali divenute in seguito standard. Una di queste avventure viene qui raccontata dalla moglie, la scrittrice Anne Morrow Lindberg, che in quell’occasione lo accompagnò con il ruolo di marconista e di ufficiale di rotta. In questo senso questo ebook entra doppiamente di diritto tra i nostri Numeri Due, perché si tratta di un’impresa meno nota del grande trasvolatore, ma principalmente perché la vera protagonista è proprio lei, Anne, donna coraggiosa e intraprendente, per niente seconda al marito.

Itinerario-AnneIl viaggio descritto in queste pagine si sviluppa lungo il cerchio massimo che dalla costa atlantica degli Stati Uniti passa per il Canada, l’Alaska, sorvola il 70° parallelo e poi scende lungo la Kamchatka, il Giappone e infine la Cina. Mezzo giro del mondo con un piccolo idrovolante biposto nel 1931, alla ricerca aerea della mitica “rotta di Nord-Ovest” sognata da tanti navigatori nei secoli precedenti.

Sarebbe potuto essere un resoconto tecnico, arido, di decolli, voli, rotte incerte e atterraggi di fortuna. Invece è tutto diverso, perché è scritto da una donna colta e intelligente. Incontri di persone in villaggi remoti, emozioni, considerazioni umane ricche di ironia e di sensibilità. E anche un po’ di brivido. Una bella lettura.

Viene fornito nei formati EPUB (per Ereader generici) e AZW3 (per Kindle) in un unico file compresso che li contiene entrambi. Prezzo: Euro 3,99 (scrivere a info@xedizioni.it)

 

Cifra tonda

almanacco

almanaccoSi guarda con ansia il calendario, si cerca l’anniversario, speriamo che altri non se ne accorgano, magari possiamo essere gli unici, o almeno i primi a stare sulla notizia, l’anniversario, la cifra tonda di qualunque cosa. La morte di Matisse? ce la siamo fatta sfuggire! era giusto un mese fa, ed erano sessant’anni, peccato! Ma c’è pronto Darwin, ci siamo sopra, duecentosei anni, presto, presto!, prepariamo un pezzo! Ma cerchiamo ancora qualcosa da vendere, tragedie, cronaca nera: bambini? Ermanno? e chi è? no, troppo antico, Alfredino? no, è a giugno. Guerre, stragi, eroi: le Foibe? il Barone Rosso?

Tranquilli! adesso ci sono le app. Ogni giorno il tuo smartphone ti aggiorna sulle cifre tonde della settimana. Storia, cultura, spettacolo, sport. Devi solo scegliere, due colpi di copia-incolla e il pezzo è pronto, con immagini, citazioni, interviste, video. Peccato che le abbiano tutti, anche quelli della concorrenza. Forse è meglio anticipare allora, insomma vogliamo venderli o no questi anniversari?

Idea! E se lanciassimo una nuova rubrica, quella del “non-anniversario”? Lo so, l’ha già inventata Lewis Carroll, quel pedofilo, ma certo ti dà libertà, non trovi? Basta scegliere solo avvenimenti di cui non è l’anniversario. Per esempio l’assassinio di Kennedy? lo sbarco sulla Luna? le torri gemelle? tutti buoni per questa nuova rubrica. Sei certo dell’esclusiva. Altro che cifra tonda, viva la libertà di commemorazione casuale! (Mister X)

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Ma che c’entra la birra?

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birreSiamo sorvegliati, e schedati. Lo sappiamo ormai tutti e lo ignoriamo saggiamente. Per esempio, dopo che facciamo una ricerca sul mercato online per, mettiamo, stampanti, per molte settimane in seguito ci appaiono continuamente pubblicità di stampanti, su qualunque sito ci capiti di andare. E’ il sistema “AdWords” usato da google, con buona pace di tutti e un certo guadagno per gli inserzionisti (un tanto a clic). Certo, a volte è stato seccante, per esempio dopo aver fatto una ricerca per una sedia a rotelle per la mia anziana madre, per mesi mi sono apparsi tutti i sussidi e i presidi per qualunque genere di handicap senile, dall’incontinenza alle piaghe da decubito.

Ma lasciamo stare Google, che ci possiede, ci vende e ci compra e lo sappiamo, e così anche Facebook. Ci sono altri che ci spiano, e sono gli hacker, quelli disonesti che vogliono rubarci i dati sensibili, e possibilmente i soldi.

Questi signori, ufficialmente non hanno accesso alle nostre attività, e infatti in genere sparano a caso. Ti arrivano mail da siti bancari che ti chiedono di confermare l’identità, o da presunti gestori di servizi fax che hanno qualcosa di urgente da consegnarti, eccetera. Questi messaggi in genere sono mirati esclusivamente agli idioti, ossia statisticamente a meno dell’1% della popolazione, e per essere certi di beccare solo questi i “gestori del servizio spam” inseriscono degli strafalcioni nel messaggio, errori di ortografia, storpiature di grammatica eccetera. Così come i produttori di una birra da quattro soldi si inventano il nome “Sant Louis”, che somiglia vagamente a “San Souci” e  attira l’imbecille con una grafica vagamente simile e uno sconto da capogiro. L’imbecille si eccita per lo sconto e non vede altro. Lo stesso imbecille, accecato dall’allarme, inserisce la sua password bancaria in un sito che lo minaccia di “chiudere l’acceso alla su carta”.

Oggi però ho notato qualcosa di nuovo, di più raffinato. Ho casualmente tenuto una breve corrispondenza con uno che lavora in una banca pugliese, e mi scriveva dal suo account bancario, mettiamo un luigi@bancadipuglia.it. Ebbene, subito dopo mi è arrivato un messaggio proprio dalla Banca di Puglia Servizi Online: “Estratto conto al 27/1/15. Per accedere al documento inserisci username e password”. Qui non si spara più a casaccio: c’è intelligenza umana, studio e precisione. Per un attimo ho pensato che se avessi avuto un conto in quella banca, probabilmente ci sarei potuto cascare, se fossi stato in quella fascia che sta tra l’idiota e il boccalone. Ma intanto mi sono sentito spiato, come sempre d’altronde, ma stavolta un po’ di più. (Mister X)

 

Lontano nel tempo (27 gennaio 1967)

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Ogni anno, alla fine di gennaio, o comunque appena si comincia a parlare del festival, mi ricordo di quel Sanremo. Quello in cui Luigi Tenco si recò con una pistola in valigia e la sua canzone più brutta, nell’estremo tentativo di dimostrare che i ragazzi italiani potevano cambiare, potevano abbandonare i papaveri e le papere, le lacrime sul viso e i gorgheggi dei tenorini, e passare oltre, verso la musica folk e tutto ciò che nel resto del mondo era già una realtà. Fu un doppio suicidio. Il primo perché nel 1967, col festival saldamente in mano a Gianni Ravera, l’indiscusso patron del rilancio commerciale, per poter gareggiare bisognava rinunciare alla propria personalità e accettare le condizioni. Come oggi d’altronde. Queste condizioni riguardavano ogni dettaglio, dall’aspetto fisico (vedi i capelli di Antoine) agli abbinamenti tra gli artisti, fino ai dettagli della canzone. Quella che fu presentata da Tenco era una ballata su un contadino costretto a fare i conti col progresso, a lasciare il mestiere di sempre per trovarsi proiettato in un mondo “che sa tutto”. Lo costrinsero a cambiare il titolo e ad aggiungere il ritornello “ciao amore ciao”, che non c’entrava niente, per renderla più sanremese, orecchiabile, vendibile. Noi che amavamo Tenco restammo perplessi al primo ascolto: non riconoscevamo l’autore di tante belle poesie, ultima tra tutte quella che accompagnava la sigla televisiva di Maigret: un giorno dopo l’altro che tutti canticchiavamo e strimpellavano alla chitarra, ripetendo il semplice arpeggio fatto di tre accordi e cercando di imitare la sua voce bella e dura da uomo adulto. Sì, fu un vero suicidio, da disperati, andare a confrontarsi con le pessime performances di Modugno (Sopra i tetti azzurri del mio pazzo amore), di Gian Pieretti (o Gianpieretti? Pietre) e via discorrendo, con una canzone in cui sicuramente neppure lui credeva. La presentò la sera del 27 gennaio e fu subito bocciata, ed era quello che Luigi voleva, e gli permise di estrarre la pistola dalla valigia e fare la sua uscita, quasi tra le braccia di Dalida e del giovane barbuto Lucio Dalla, che invece aveva già imparato a muoversi nell’ambiente della discografia italiana.

Per chi ama fare un tuffo indietro, per capire l’orrore di quei giorni, abbiamo preparato tre estratti di Epoca che rispecchiano puntualmente la sensibilità dell’opinione pubblica, prima durante e dopo quei drammatici giorni. Non manca l’allusione al numero 17, casualmente il numero d’ordine della manifestazione in quell’anno, né i tentativi di liquidare con un po’ di psicologia fai-da-te la spinta all’annientamento del giovane cantautore. Evidentemente troppo sensibile, evidentemente disadattato. (Mister X)