Articoli di Leonardo Mureddu

La mia vita e il mio lavoro

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coverTitolo originale: My life and work, prima edizione 1922.

All’apice del successo della sua azienda, Henry Ford sente il bisogno di condividere l’esperienza vissuta, dalla prima idea di costruire automobili fino al successo planetario, con milioni di esemplari venduti del suo “Modello T”.

Questo volume rappresenta, con grande anticipo, il testamento dell’imprenditore più rivoluzionario dei suoi tempi, l’uomo che secondo alcuni “ha caricato la molla del ventesimo secolo”. Molla che a nostro avviso non si è ancora scaricata.

Ve lo offriamo in una traduzione originale italiana, eseguita dal Consorzio zero37, che ne ha pure curato la versione in ebook.

Ebook formato Epub standard, 227 pagine, costo euro 1,90

Per acquistarlo scrivici all’indirizzo info@xedizioni.it oppure a zero37@zero37.org

Wireless, racconto di R. Kipling

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Rudyard Kipling

Nel dicembre 1899 lo scrittore e poeta Rudyard Kipling invita a cena nella sua casa di Elms il grande inventore Guglielmo Marconi. Quest’ultimo, già famoso, è reduce dai primi successi delle sue dimostrazioni della Telegrafia senza fili in alcune località nel sud dell’Inghilterra, e anche attraverso il braccio di mare che separa l’Isola di Wight dalla costa. Dalla conversazione tra i due, sicuramente interessante, Kipling apprende i principi della radio, e poco tempo dopo scriverà il racconto che vi presentiamo qui. Wireless apparve per la prima volta  nel 1902 sul mensile americano Scribner’s Magazine, per poi far parte della raccolta Traffics and Discoveries (McMillman & Co., Londra 1904). Vi si parla di un esperimento di trasmissione da parte di alcuni entusiasti radio-amatori, ma anche di fenomeni di altro genere, che hanno come soggetto un poeta del passato, la sua musa ispiratrice e un bicchiere di uno strano liquore a base di etere clorico.

Questo racconto, apparso per la prima volta in italiano nella raccolta Confini e conflitti (Edizioni Theoria, 1992) , è stato tradotto e curato per noi dal Consorzio Zero37, che ce lo mette a disposizione in formato pdf.

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Wireless

Musica

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musica-amazzoniaDurante la stesura del libro Doppio sei, che tratta delle fortune che hanno portato la Terra ad essere un pianeta abitato, mi sono occupato anche dell’evoluzione umana. Poche considerazioni che servono a spiegare il meccanismo del vantaggio evolutivo: ogni mutazione casuale che provoca un miglioramento viene premiata dall’evoluzione e si propaga alla discendenza; viceversa ogni mutazione che provoca un peggioramento si traduce in un ramo secco. Per esempio individui più resistenti al freddo, con una maggiore abilità manuale, con una migliore resistenza rispetto a certe malattie, tutti questi hanno maggiori probabilità di avere discendenza sana e longeva, e “vincono” rispetto agli individui che non hanno sviluppato queste caratteristiche. È un meccanismo che si sviluppa nei milioni di anni della vita sulla terra, e ha portato tra l’altro alla specie umana attuale, nel bene e nel male. Quindi, ogni conquista si tiene solo se ha un vero vantaggio evolutivo. Questo vale chiaramente per la posizione eretta, per gli organi della fonazione, e prima ancora per il pollice opponibile. Ma… e la musica? Perché abbiamo la musica?

Occorre dire che la cosa mi ha sempre incuriosito. Perché mai l’uomo possiede questo innato istinto musicale? Ci deve essere un vero vantaggio evolutivo nel possederlo, altrimenti certe comunità, sviluppatesi indipendentemente da altre, potrebbero non averlo. Avete mai visto una tribù aborigena, una comunità di indios dell’Amazzonia che non abbia una qualche tradizione musicale? Perché tutti fanno uso della musica, del ritmo, della danza? Semplice: perché tutti gli altri, quelli che non ne facevano uso, si sono estinti. Tanto era lo svantaggio.

Molte persone che conosco sanno quante volte ho portato la discussione su questo argomento, sperando di avere un’illuminazione. Ho letto numerosi libri che trattano di musica, tra cui il poderoso L’istinto musicale di Philip Ball (Dedalo 2010), altri testi sul cervello umano, che sanno indicarti esattamente dove si trovano i centri musicali nell’encefalo ma non perché stanno lì; e ancora libri sull’evoluzione, sull’etnografia di varie popolazioni umane e così via. La migliore spiegazione, ingenua ma dolcissima, l’ho trovata in un libro di S. Pinker (How the mind works, Norton 1997):

La musica è uno zuccherino uditivo, una raffinata confezione creata per solleticare le terminazioni sensoriali di almeno sei delle nostre facoltà mentali. [...] Rispetto al linguaggio, alla vista, al ragionamento sociale e alle conoscenze fisiche, la musica potrebbe scomparire dalla nostra specie lasciando virtualmente intatto il nostro stile di vita. La musica sembra soltanto una tecnica per procurarsi piacere, un coctail di elementi ricreativi che ingeriamo attraverso l’orecchio per stimolare simultaneamente una massa di circuiti del piacere.”

Probabilmente è questo che si vede quando si fanno quegli esami del cervello dopo averlo stimolato in vario modo, mostrando le zone che vengono via via attivate. L’ascolto della musica deve creare una vera e propria orgia delle varie circonvoluzioni della nostra corteccia. A mio avviso però i conti non tornano con il vantaggio evolutivo. E poi, diciamocelo, un conto è ascoltare musica, un altro conto è farla. E per farla dobbiamo impararla, e provate a chiedere a un musicista se sia facile e gratificante studiare un qualsiasi strumento o il canto: ore e ore di prove frustranti, piccoli progressi per volta ma grandi soddisfazioni alla fine. Anche nelle tribù primitive, sono pochi quelli che fanno la musica, tanti quelli che la godono. Questione di talento. Dunque non basta l’istinto, ci vuole anche il talento: bisogna essere portati.

neanderthal-flute-bwTornando alla citazione di Pinker di qua sopra, vorrei chiedergli: cosa vuol dire “creata”? e da chi? e poi gli chiederei se è proprio sicuro che potrebbe scomparire lasciando intatto il nostro stile di vita. Non credo proprio, anzi più indago su questa faccenda più mi convinco che senza la musica non potremmo forse neppure parlare di “stile di vita”. Tant’è vero che le popolazioni primitive prive del senso musicale si sono tutte estinte. E che ci sono strumenti musicali rappresentati in ogni cultura, anche quelle delle pitture rupestri della preistoria. Anche l’uomo di Neanderthal suonava i suoi strumenti, pifferi e tamburi, e probabilmente cantava col suo vocione. Il fatto che si sia estinto dipende da altri fattori, e noi Sapiens ne sappiamo qualcosa.

Un’amica tempo fa mi suggerì una motivazione bellica: ritmo, tamburi, canti e marce propiziatorie potevano servire per caricare un esercito di energia combattiva (vedi la famosissima danza dei Maori), e questa sarebbe potuta essere la motivazione per un premio evolutivo. Insomma vince chi riesce a caricare meglio i propri soldati. Plausibile, può darsi che abbia contribuito, anche se da solo mi pare un po’ deboluccio.

A proposito di deboluccio, per un periodo mi affezionai a un’idea stravagante quanto priva di qualunque base scientifica: e se la musica fosse arrivata da un mondo alieno? se fosse stata il codice di un linguaggio complessissimo di cui poi l’uomo ha perso la chiave? Immaginatevi un linguaggio in cui l’informazione possa essere trasmessa in modo seriale come una melodia, ma anche parallelo come un’armonia: tante note suonate insieme, con tanti timbri differenti potrebbero in un solo istante darti una quantità di informazioni che sarebbe impossibile trasmettere col linguaggio parlato, che è, lo sappiamo, seriale: una sillaba dopo l’altra, una parola dopo l’altra. Dunque secondo questa idea il nostro cervello sarebbe attrezzato per decodificare un superlinguaggio alieno fatto di note, intervalli, ritmi e timbri, armoniche e interferenze, ma avendone perduto la chiave per un qualche accidente, ora si accontenterebbe di usare tutto ciò per giocarci e per provare piacere. Devo confessare che provai anche a scrivere un racconto di fantascienza su questa idea, ma poi lo abbandonai. Lo lascio a qualcuno che si voglia cimentare, basta che dichiari da qualche parte che l’idea è mia.

Contemporaneamente, essendo interessato per altri versi al linguaggio, mi sono trovato a leggere qui e là e a collezionare libri sull’invenzione della scrittura, sulla tradizione orale e tutto il resto. Anche nell’ultimo libro che ho letto, il bellissimo Papyrus (Irene Vallejo, Bompiani) che parla di libri, ho trovato numerosi spunti per meditare sull’evoluzione umana, questa volta ragionando sull’aspetto culturale: le popolazioni che hanno sviluppato per prime un alfabeto utilizzabile dalle masse hanno conseguito un vantaggio evolutivo. Le grandi biblioteche, come quelle di Alessandria e di Pergamo lo dimostrano: chi possedeva i libri possedeva la conoscenza, e dalla conoscenza ricavava il potere. Semplice, no? Papyrus non parla di musica, ma è stata la sua lettura a mettermi sulla strada giusta per risolvere il mio annoso problema. La domanda è: quando è nata la scrittura? Cosa c’era prima?

La scrittura più antica che si conosca risale a circa 3000 anni prima di Cristo, ossia cinquemila anni fa, lustro più, lustro meno. Come era l’uomo di cinquemila anni fa? Era come noi, anzi: noi siamo come lui. L’uomo di cinquemila anni fa proveniva da una storia evolutiva di centinaia di migliaia di anni, esattamente come siamo noi ora. Non sono poi tante le generazioni che ci separano dalla civiltà minoica, che sviluppò delle interessantissime scritture non geroglifiche, forse le prime sillabiche. Ma molte, molte meno sono le generazioni che ci separano dall’inizio dell’uso della scrittura per gli usi che conosciamo, ossia per fare libri: libri di storia, romanzi, letteratura varia, libri di cucina, manuali militari eccetera. Per vedere circolare queste opere bisogna arrivare quasi a ridosso dell’era cristiana, diciamo qualche secolo prima di Cristo. E prima, come si faceva? Si viveva forse nella totale ignoranza? Si viveva come gli animali, basandosi sull’istinto e sull’olfatto? Come si faceva a educare i propri figli sulle mille cose della vita, sui cibi commestibili e quelli velenosi, sulle stagioni per la semina e per la raccolta dei frutti, come si raccontava la storia degli antenati, come si suscitava l’orgoglio tribale per poter costruire eserciti di difesa e di offesa? Insomma come poteva procedere la cultura? Semplice: per tradizione orale.

Centinaia di migliaia di anni di tradizione orale devono aver portato a un’estrema specializzazione del cervello umano verso questa pratica: chiaramente il linguaggio fonetico, fatto di suoni complessi, articolati e modulabili in altezza, timbro, potenza. Ma non basta: occorreva sviluppare capacità mnemoniche spaventose per tenere a mente, generazione dopo generazione tutto lo scibile umano che via via aumentava. Certo ci si poteva aiutare con l’attività pittorica: dipingere una scena di caccia in una grotta ben protetta poteva servire per tramandare la particolare tecnica di quella caccia. Ma per il resto, le storie da raccontare, le tradizioni religiose da perpetuare, le istruzioni per raggiungere luoghi lontani o per costruire un’imbarcazione, servivano persone di talento. Grande memoria e un’ottima tecnica per mantenere i ricordi. In questa tecnica, a mio avviso, entra la musica. O almeno il ritmo, la poesia, la rima, che poi sono i parenti stretti, nel linguaggio, dei suoni musicali.

Si dice che gli antichi aedi, i cantori delle gesta di Gilgamesh, dei poemi biblici e degli eroi epici, fossero in grado di ricordare decine di migliaia di versi, e ripeterli nelle piazze accompagnandosi con strumenti musicali o con il semplice ritmo di un bastone su un tamburo. Questo tra l’altro fa capire come, in letteratura, la poesia sia nata molto prima della prosa, e come il talento musicale fosse indispensabile, oltre agli altri attributi di questi personaggi speciali, per rendere possibile la conservazione e la catalogazione di decine di opere orali. Quegli uomini nelle piazze erano le vere e proprie biblioteche circolanti, e chi si fermava ad ascoltarli trovava facile ricordare i suoni insieme alle parole, così come noi oggi ricordiamo più facilmente i versi di una canzone che le parole di un discorso. Anche la danza ritmica aiutava, specie per tramandare riti sacri e liturgie. Provate ora a togliere tutto questo. Lo chiederei al signor Pinker della citazione di sopra.

L’Iliade è una di quelle opere che hanno attraversato il confine tra la tradizione orale e la scrittura. Se non fosse stato per la scrittura ora probabilmente sarebbe persa, come chissà quante altre opere di allora, ma prima di diventare una serie di rotoli di papiro fu declamata in tutto il mondo ellenistico e divenne tradizione popolare di molte città, con poche variazioni. Il primo verso dell’Iliade chiede a una dea di cantare. E, notiamo bene, la dea era la musa Calliope (dalla bella voce) ed era nel recinto delle muse che si conservava e si produceva la cultura: da questa potente etimologia nasce la musica ma anche il museo.

Per tornare alla mia strampalata idea della musica come retaggio di un mondo alieno: pensandoci bene, non è forse alieno un mondo nel quale non c’è alcun modo per tramandare la conoscenza se non attraverso la parola “alata”? Un mondo di grande cultura, dove ci sono architetti, sacerdoti, medici, commercianti, poeti. Certo, potevano aiutarsi con il disegno, e infatti le prime forme di proto-scrittura sono elenchi di oggetti, tutti raffigurati con segni ideografici di chiaro significato: capi di bestiame, schiavi, frutti. Ma l’informazione “teorica” poteva venire solo narrata, anzi: cantata.

Ai tempi di Socrate c’era ancora un chiaro ricordo di quei tempi, e un certo rimpianto da parte degli uomini di cultura. I libri arrivavano e spazzavano via la tradizione orale:

È oblio ciò che causeranno le lettere a chi apprenderà a usarle, perché si inizierà a trascurare la memoria; fidandosi del libro si giungerà ai ricordi dall’esterno. Sarà dunque una parvenza di saggezza, non la sua vera essenza, ciò di cui la scrittura doterà gli uomini…

Il libro dunque rappresentava lo spauracchio dei “ricordi dall’esterno”, mentre fino a quel momento un individuo viaggiava con tutto il suo bagaglio di ricordi “dall’interno”. Somiglia molto alla paura che abbiamo ora, che internet tolga alle giovani generazioni la capacità di leggere, dato che qualunque informazione arriva immediatamente da Google.

L. Mureddu

 

Il vero Cyrano

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savinien_de_cyrano_de_bergeracSuccede a volte che il personaggio oscuri la persona. Ci andò vicino Tom Edison, protagonista di una serie di romanzi per ragazzi, che ricalcava il genio inventivo del vero Thomas Alva Edison, inventore, tra le tante cose, della lampadina e del grammofono. Tom, il personaggio, arriverà fino su Marte.

L’idea di prendere un personaggio reale e romanzarne la vita fino a farlo diventare il protagonista di vicende fantastiche e mirabolanti non è nuova e in genere funziona. In molti casi la persona reale funge da ispirazione per l’autore.

Lo stesso capitò forse a Edmond Rostand, lo scrittore e drammaturgo francese celebre soprattutto per l’opera teatrale Cyrano de Bergerac. Il protagonista, spadaccino, poeta e avventuriero dal naso spropositato, è ben noto universalmente come solo e unico Cyrano. Pochi sanno però che anche in questo caso l’autore si ispirò a una persona realmente vissuta qualche secolo prima, e che forse, a parte un naso importante, poco aveva a che fare con l’eroe teatrale.

Parliamo infatti di Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, scrittore, filosofo, intellettuale parigino di inizio ’600. Coraggioso sì, ma più con la penna che con la spada. Libertino, come si diceva allora, nel senso del libero pensatore, dissacrante rispetto ai costumi bigotti dell’epoca. Il che gli procurò non pochi nemici e tanti guai, e oltre a qualche duello probabilmente anche uno strano incidente che ne segnò la fine prematura a meno di quarant’anni, colpito dal trave di un soffitto.

Hercule era dotato di una notevole arguzia e verve comica, che lo resero ben noto nell’ambiente degli intellettuali parigini. Scrisse alcuni libri, molti dei quali sono purtroppo andati perduti, tra cui un Trattato di Fisica, molto innovatore per i suoi tempi. Approdò anche alla letteratura che potremmo definire fantascientifica, con almeno due racconti lunghi: Gli stati e gli imperi della Luna e Gli stati e imperi del Sole, allegorie utilizzate soprattutto per fare dell’ironia sugli usi e i costumi della società di allora. Insomma, poco a che vedere col Cyrano di Rostand. Dal quale tuttavia è stato oscurato, cancellato per sempre, almeno agli occhi della cultura tradizionale.

Per questo motivo, per dargli un minimo di visibilità, abbiamo deciso di dedicargli un volume della collana “ragnatele”. Si tratta del Viaggio comico negli stati e imperi della Luna, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1913 grazie alla traduzione e alla cura di Umberto Fracchia. Una lettura piacevole, piena di dolcezza e di una vera e propria filosofia razionalista e illuminista. In catalogo (L.M. 22/03/21)

 

I fiori dell’amicizia

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In un articolo apparso in un inserto letterario di Epoca nel 1954 il giornalista Alberto Cavallari presenta un libro di Donald Gallup, dal titolo The Flowers of Friendship (Ed. Alfred A. Knopf, New York 1953). Questo volume, che si può trovare ancora oggi, raccoglie centinaia di lettere ricevute da Gertrude Stein durante la sua vita, e qualcuna anche dopo la morte. Molte firme sono note: Hemingway, Picasso, Matisse, Anderson e tanti altri. Sono questi i “fiori”, testimonianze di una rete di rapporti di vera amicizia che contraddistinguono l’attività della scrittrice.

Secondo Cavallari, che dipinge Stein come una matriarca e una maestra della diplomazia, sono proprio questi rapporti il vero cardine della popolarità e della fama di Gertrude Stein, più della sua stessa arte. Lo dimostra anche il quadro di Manuel Blasco, di cui parliamo nel nostro blog, nel quale le viene riservato un posto proprio matriarcale. Lei stessa dedica l’intero libro Autobiografia di Alice Toklas alla celebrazione delle sue amicizie, e al rimpianto di quelle cessate, citandole proprio come fiori che appassiscono. Molte però non moriranno mai, e moltisimi artisti francesi, inglesi, americani, anche tedeschi dovranno proprio a questa amicizia almeno una parte del loro successo. Compreso Hemingway, compreso Picasso.

Gertrude Stein nel 1945

Leggi tutto l’articolo di Alberto Cavallari

 

Al banchetto di Rousseau

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manuel-blasco-henri-rousseauQuesto strano quadro, coi numerini sui personaggi e il cartiglio esplicativo, fu realizzato nel 1908 da un certo Manuel Blasco, cugino di Pablo Picasso e pittore anch’egli, sebbene molto meno conosciuto. Celebra un banchetto che si tenne a Montmartre, nello studio di Picasso, per celebrare un altro pittore, Henri Rousseau “il doganiere” da cui qualche giorno prima Picasso aveva acquistato il grande ritratto di donna che troneggia sullo sfondo, proprio dietro Rousseau e il suo violino. Perché ci interessa tutto ciò? Perché a quel banchetto era invitata anche Gertrude Stein, che in seguito lo descriverà minuziosamente, dai preparativi ai disastri finali, nel suo libro Autobiografia di Alice Toklas. Per inciso, Gertrude Stein è ben visibile, in primo piano, seduta a sinistra. Porta il numero 4. Picasso è il n. 2. Tutti gli altri sono personaggi più o meno noti del mondo della splendida Parigi di quegli anni, ed è un piacere vederli e riconoscerli.

Vi proponiamo un piccolo esperimento: proviamo a seguire insieme la descrizione del banchetto fatta da Stein, tenendo d’occhio quell’istantanea e immaginando le voci, i colori e i sapori dei cibi, o almeno del riz à la Valencienne che sembra abbondare sui piatti dei commensali. L’istante immortalato sembra quello in cui Apollinaire, in piedi sulla destra, declama la sua poesia. Buon divertimento!

Da Autobiografia di Alice Toklas, di Gertrude Stein, trad. Cesare Pavese, Xedizioni 2020:

Agli inizi della mia dimora parigina vivevo con un’amica, come ho detto, in un piccolo alloggio in rue Notre-Dame-des-Champs. Non prendevo più lezioni di francese da Fernande, perché lei e Picasso s’erano riconciliati, ma non di rado lei ve­niva a farmi visita. Era l’autunno, me ne ricordo bene perché avevo comperato il mio primo cappellino da inverno parigino. Un graziosissimo cappello di velluto nero, molto grande, con guarnizioni giallo vivo. Persino Fernande l’aveva approvato.

Fernande un giorno faceva colazione con noi e ci disse che si stava preparando un banchetto per Rousseau, del quale lei stessa s’occupava. Enumerò gli invitati. C’eravamo anche noi. Ma chi era Rousseau? Non sapevo, ma insomma non importava, visto che si trattava di un banchetto e ci sarebbero venuti tutti quanti, noi comprese.

Il sabato seguente in rue de Fleurus tutti parlavano del ban­chetto in onore di Rousseau e scopersi allora che Rousseau era l’autore di quel quadro da me veduto alla prima Indipendente. Si seppe che giorni prima Picasso aveva scovato a Montmartre un grande ritratto di donna di mano di Rousseau e l’aveva com­perato: la celebrazione era in onore dell’acquisto e del pittore. Si annunciava una gran cosa.

Fernande mi parlò assai delle portate. Ci sarebbe stato riz à la Valencienne, Fernande aveva imparato a farlo nel suo ultimo viaggio in Spagna; poi aveva ordinato, non ricordo più ora che cosa avesse ordinato, ma gran roba certo aveva ordinato, da Félix Potin, gli spacci gastronomici uniti, dove preparavano piatti su ordinazione. Eran tutti in orgasmo. Guillaume Apollinaire, se ben ricordo, essendo molto intimo con Rousseau, l’aveva indotto lui a promettere di venire e ce l’avrebbe con­dotto; tutti quanti dovevano preparare poesie e canzoni; sarebbe stata una riunione molto rigolo, ch’è la parola montmartroise favorita per designare una riuscita ricreazione. Ci saremmo do­vuti trovar tutti in quel caffè ai piedi di rue Ravignan, e qui prendere un apéritif, per poi salire allo studio di Picasso e met­terci a tavola. Infilai il mio cappello nuovo e ci recammo a Montmartre, dove tutti ci trovammo nel caffè.

Entravamo, Gertrude Stein ed io, e pareva ci fosse presente nel caffè una vera folla: in mezzo a tutti una ragazza smilza e alta che, spalancando le lunghe braccia sottili, si dondolava squi­librata innanzi e indietro. Non capivo che cosa mai facesse: evidentemente non era la ginnastica, si restava esterrefatti, ma la ragazza aveva un’aria seducente. « Che succede? » bisbigliai a Gertrude Stein. « Oh, quella è Marie Laurencin, temo forte che abbia già preso troppi aperitivi preliminari ». « È quella la vecchia signora di cui parlava Fernande, che fa versacci come una belva e dà noia a Picasso? » « A Picasso dà noia sì, ma per giovane è molto giovane e ne ha bevuto uno di troppo », disse Gertrude Stein, cacciandosi dentro. Proprio in quel mo­mento venne un gran frastuono dalla porta del caffè e apparve Fernande: grande, agitata e infuriata da non dirsi. « Félix Po­tin », annunciò, « non ha mandato il pranzo ». Alla grave no­tizia tutti quanti parvero annientati, ma io, forte del mio stile americano, dissi a Fernande: «Su presto, telefoniamo». A quei tempi in Parigi nessuno telefonava, tanto meno poi al ne­gozio dei commestibili. Ma Fernande ci stette e filammo via.

Dappertutto dove capitammo, o non c’era telefono o, se c’era, non funzionava; alla fine ne trovammo uno buono, ma da Felix Potin avevano chiuso o stavano per chiudere e nessuno rispose alle nostre chiamate. Fernande aveva perso interamente la testa, ma alla fine la persuasi che mi enumerasse tutte le provviste che Felix Potin avrebbe dovuto mandarle; allora di botteguccia in botteguccia, per tutto Montmartre, trovammo di che sosti­tuire, tanto più che Fernande annunciò di aver preparato tanto riz à la Valencienne da bastare a riempire qualunque mancanza. E così fu.

Quando fummo di ritorno al caffè, trovammo che quasi tutti quelli di prima se n’erano andati, ma ne erano giunti degli altri: Fernande invitò anche questi con noi. Mentre arranca­vamo su per la collina, ecco che ci ritroviamo innanzi tutti quelli di prima. C’era nel mezzo del gruppo Marie Laurencin, soste­nuta su un fianco da Gertrude Stein e sull’altro dal fratello di Gertrude Stein, e s’abbandonava ora nelle braccia dell’una ora in quelle dell’altro; e le sue braccia erano magre, delicate e lunghe e non smetteva quelle voci acute e tenere. Va da sé che Guillaume non era presente: a lui toccava di giungere con Rous­seau in persona, una volta che tutti fossero a loro posto.

Fernande precedette la lentissima processione, io le tenni dietro e giungemmo allo studio. L’addobbo faceva un effettone. Avevano scovato certi cavalletti, cavalletti da falegname, e sopra gettatevi delle tavole: tutt’intorno a queste tavole, delle panche. A capo-tavola c’era il nuovo acquisto, il Rousseau, drap­peggiato di bandiere e ghirlande e fiancheggiato ai due lati da enormi statue, non ricordo più quali statue. L’effetto era so­lenne e festosissimo. Senza dubbio il riz à la Valencienne stava cuocendo sotto nello studio di Max Jacob. Max, non essendo in buoni rapporti con Picasso, non era della partita, ma il suo stu­dio serviva per il riso e per guardaroba degli uomini. Il guarda­roba delle signore era nello studio di fronte, appartenuto a Van Dongen all’epoca degli spinaci e allora occupato da un francese detto Vaillant. Proprio questo sarebbe stato più tardi lo studio di Juan Gris.

Tutti presero posto e cominciarono a mangiare il riso e le altre portate, dopo naturalmente che Guillaume Apollinaire e Rousseau ebbero fatto il loro ingresso, che fu quasi subito, in una salva di applausi frenetici. Ricordo così bene il loro in­gresso: Rousseau, un francese piccolino e incolore, dalla bar­betta, simile a tutti gli altri francesi che si vedono dovunque; Guillaume Apollinaire coi suoi lineamenti fini e vermigli, ca­pelli scuri e splendida carnagione. Si fecero le presentazioni e tutti tornarono a sedersi. Guillaume s’infilò sulla panca al fianco di Marie Laurencin. Vedendolo, Marie che s’era un poco cal­mata al fianco di Gertrude Stein, scoppiò un’altra volta in urli e gestacci sconnessi. Guillaume se la portò fuori e le fece di­scendere le scale, e dopo un’assenza conveniente ritornarono su, Marie un tantino ammaccata ma tranquilla. A questo punto tutti avevano sparecchiato e si passò alla poesia. Sì, ma prima Frédéric del Lapin Agile e dell’università degli Apaches ci aveva fatto una visita col suo solito compagno l’asinello e, be­vuto un bicchiere, se n’era andato. Qualche tempo dopo certi cantanti girovaghi italiani, che avevano sentito del banchetto, si presentarono. Fernande si drizzò dal fondo della tavola, rossa in faccia e, levando l’indice in alto, protestò che non era un ban­chetto come credevano loro: subito li buttarono fuori.

Ma chi c’era? Noi c’eravamo, e Salmon, André Salmon, allora giovane poeta e giornalista promettente, Pichot e Germaine Pichot, Braque e forse anche Marcelle Braque, ma non ricordo bene, so che si parlò di lei quella sera; poi i Raynal, gli Agero, il falso « Greco » con sua moglie, e svariate altre coppie che non conoscevo e ora non ricordo; e poi Vaillant, un banale giovanotto francese molto simpatico, inquilino dello studio di fronte.

Cominciarono le cerimonie. Guillaume Apollinaire s’alzò in piedi e pronunciò un solenne elogio, che non mi ricordo af­fatto cosa dicesse, ma finiva con una poesia da lui stesso com­posta, mezzo recitata e mezzo cantata, di cui tutti ripetevano in coro il ritornello: la peinture de ce Rousseau. Qualcun altro al­lora, forse Raynal, non ricordo, sorse in piedi e si fecero brindisi; poi con un guizzo repentino André Salmon che sedeva accanto alla mia amica e discorreva solennemente di letteratura e di viaggi, balzò sul tavolo che per nessun riguardo era troppo solido e vociferò un elogio e una poesia estemporanei. Giunto alla fine, diede di piglio a un bicchierone e lo tracannò intero, e di botto, perduta la testa, ubbriaco fradicio, prese ad attaccar lite. Gli uo­mini gli balzarono tutti addosso, le statue barcollarono. Braque ch’è un giovanotto grande e grosso, abbrancò una statua per braccio e si piantò a sostenerle, mentre il fratello di Gertrude Stein, altro giovanottone, cercava di difendere dai malanni il piccolo Rousseau e il suo violino. Tutti gli altri, e Picasso in testa, perché Picasso benché piccolo è robusto, strascinarono Salmon nello studio di fronte e ve lo chiusero a chiave. Ritor­narono tutti e ripresero i posti.

Da quel momento la serata trascorse senza incidenti. Marie Laurencin cantò con la sua vocetta alcune dolcissime vecchie canzoni normanne. La moglie di Agero cantò alcune dolcissime vecchie canzoni limosine, e Pichot ballò una stupenda danza religiosa spagnola che concluse distendendosi sul pavimento come un Cristo crocifisso.

Guillaume Apollinaire venne tutto grave a pregare me e la mia amica di cantare qualche canzone originale dei pellerossa. Ma né io né lei ce ne sentivamo in grado, con gran dispiacere di Guillaume e della compagnia. Rousseau, radioso e dolcissimo, suonò il violino e ci parlò dei drammi che aveva scritto e dei suoi ricordi messicani. Tutto andava tranquillamente e verso le tre del mattino ci recammo tutti nello studio dov’era stato de­posto Salmon e dov’erano i nostri cappelli e soprabiti, per rive­stirci e tornare a casa. Sul divano trovammo Salmon che dor­miva tranquillo e tutt’intorno, mezzo masticati, una scatola di cerini, un petit-bleu e le mie guarnizioni gialle. Immaginate quel che provai, benché fossero le tre del mattino. Salmon si destò tuttavia gentilissimo e compito, e uscimmo tutti insieme nella strada. D’un tratto, lanciando un urlo selvaggio, Salmon galoppò giù dalla collina.

Gertrude Stein e il fratello, la mia amica ed io, tutti in una sola carrozza, accompagnammo a casa Rousseau.

(L. Mureddu)

nella misura in cui…

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linus-7704-02Non provo mai nostalgia, non certo per i “bei tempi” o per i “miei tempi”. Ma oggi, sfogliando una copia di Linus del 1977 ho provato dolore, come quello che si può provare guardando la vecchia foto di una “quasi” fidanzata con cui non si è stati mai: una cosa antica, possibile allora ma perduta per sempre. È  dolore per la perdita di un periodo storico che si è bloccato a metà ed è rimasto laggiù, col partito (si chiamava così, scritto minuscolo e senza altre specificazioni) che aveva “quasi” raggiunto il traguardo, con il femminismo, le conquiste sociali, le lotte sindacali, il diritto allo studio, le 150 ore di scuola serale per i lavoratori, le mille assemblee con i milioni di sigarette, le manifestazioni con gli striscioni, la borghesia piccola piccola che si sentiva alle corde e reagiva con la paura. È stato forse l’ultimo periodo che conosco nel quale la parola, detta o scritta, aveva la sua dignità. Si andava, almeno apparentemente, verso qualcosa.

Il ’68 ormai lontano aveva creato una generazione strana, forse piuttosto povera di ironia ma convinta che la cultura avesse importanza: per questo si leggeva molto, si andava molto al cinema e se ne discuteva, si leggeva anche tra le righe dei versi delle canzonette, in cerca dell’impegno o del disimpegno. O eri dentro, o eri fuori. Ma quella del ’77 era la nuova generazione, che oltre a tutto ciò si voleva anche riprendere il gusto della risata, dello sberleffo, della mascherata. Quelli del ’77 si volevano liberare dal muso togliattiano, volevano anche poter urlare “scemo, scemo!!” all’oratore di turno, e fargli la danza degli indiani metropolitani.

Certo non erano anni belli, quelli, c’era la lotta armata per le strade, c’erano gli odiati “celerini” in tenuta da sommossa che sparavano proiettili di gomma per disperdere le manifestazioni, c’era anche sangue. Anche prima ce n’era stato con le terribili stragi, ma adesso stava capitando qualcosa di nuovo: erano le stesse ali dei movimenti che cominciavano a far sul serio con la violenza. Era il terrorismo della guerriglia. E quella è una storia che conoscono tutti.

Ma tornando al fascicolo di Linus che ho per le mani, aprile 1977, trovato in una bancarella, mi sembra di rimettere piede dopo tanti anni in una casa dove tutto si è fermato. Oreste del Buono col suo editoriale “nella misura in cui…”, casualmente l’ultimo, molto pessimistico, della sua carriera di direttore, la redazione tutta femminile (tutta!), le lettere che da sole fanno letteratura, e tutto il resto che fa pensare a un percorso difficile, faticoso, ma ormai avviato. Senza parlare ovviamente delle strisce comiche che ospita, i Peanuts, Doonesbury, Feiffer, Corto Maltese eccetera.

Linus entrava nelle case insieme all’Unità, al Manifesto e all’Espresso, ed era la parte satirica ma non troppo, leggera ma non troppo, dell’informazione e del dibattito politico. Corrispondeva vagamente al concetto di “comune” come la si interpretava allora: una convivenza tra persone di idee differenti, formazioni differenti, ma un’unica base democratica e una tendenza al rispetto di regole non scritte, per esempio quella di evitare l’insulto. Come sappiamo le comuni non hanno mai funzionato, e forse è questa la causa che ha chiuso anche quel periodo.

Ecco, il 1977 è un libro di promesse che non verranno mai mantenute, di azioni cominciate, germogli che si sono seccati, strade che improvvisamente sono crollate trascinando tutto nel fiume. Questo è il motivo del dolore. E mi chiedo sempre quanto io stesso sia stato responsabile nel mio piccolo di tutto ciò. (L. M.)

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What’s in a name

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awardUna storia di editoria open source e del motivo per cui, ogni volta che voglio parlare di un argomento che studio da decenni, sento prima il bisogno di scusarmi per il nome che porta.

(‘A rose with any other name would smell as sweet‘)

Permettetemi di dubitare dell’affermazione contenuta nel famoso verso di Shakespeare: il nome può cambiare tutto, e non servirebbero esempi per rendersene conto. Ve ne faccio solo uno piuttosto divertente. Negli anni ’80 la Fiat produceva in Italia un’auto di grande successo, la Ritmo, l’erede della vecchia 1100, l’auto per le famiglie. Quando tentò di esportarla negli Stati Uniti, dopo la costosa e scenografica presentazione newyorkese qualcuno chiese: “ma volete veramente vendere qui un’auto con questo nome?” E spiegò che la parola “ritmo” in slang americano è legata al ciclo mestruale, dunque poco adatta all’immagine di una vettura. Per questo motivo la Ritmo, in America si chiamò “Strada”. Non ebbe un grande successo neppure con quel nome: forse gli americani non erano ancora pronti per le auto compatte. Ma veniamo al nostro argomento.

Open Source significa letteralmente “Codice Sorgente aperto”, ossia disponibile per l’utilizzo libero, le modifiche, la ridistribuzione. Conosciamo tutti degli ottimi esempi di questa filosofia di sviluppo del software: il sistema operativo Linux, il browser Firefox, il pacchetto Open Office e tantissimi altri. Tutti questi sistemi vivono una loro vita parallela rispetto ai sistemi proprietari (e di conseguenza chiusi), sviluppati e venduti per scopi commerciali, e in genere detenuti da grosse società multinazionali, come MicrosoftAdobe o Apple.

È nel campo delle applicazioni professionali che i software proprietari detengono quasi sempre il mercato, e quasi il monopolio: provate a fare l’ingegnere senza avere una licenza Autocad, tanto per fare un esempio. Inoltre, se prima era possibile acquistare un pacchetto software una volta per tutte e tirare avanti con quello, oggi molti di questi pacchetti vengono rilasciati in “abbonamento”, e quindi producono un costo mensile (o annuale) non sempre irrilevante.

Passando all’editoria, non c’è dubbio che per la composizione tipografica professionale occorrano pacchetti software di alto livello, sia per lo sviluppo della grafica, sia per l’impaginazione dei testi. In questo campo, pur non essendoci un vero e proprio monopolio, esiste un predominio dei pacchetti prodotti da Adobe e installati su piattaforme Macintosh. Si tratta di investimenti quasi obbligatori per chi vuole effettuare pubblicazioni ad alto livello tipografico. Anche in questo caso, oltre all’acquisto delle macchine occorre provvedere all’abbonamento alle licenze d’uso del software.

Esistono alternative? Una ci sarebbe, ed esiste ormai da quasi quarant’anni. Si tratta del sistema LaTeX, che tutti i professionisti della ricerca scientifica conoscono bene. Lo sapete che quasi tutte le riviste di Medicina, Chimica, Astrofisica, Matematica, piene di formule, grafici, immagini, riferimenti bibliografici complessi, sono composte con LaTeX? E che Wikipedia usa LaTeX per il rendering di tutte le formule matematiche che pubblica? Allora, come mai il mondo degli utenti comuni non ne conosce neppure l’esistenza? Seconda domanda: cosa è possibile fare con LaTeX? Terza domanda: perché ha questo nome?

Cominciamo dall’ultima, la cui risposta secondo me rivela molto più di ciò che ci si potrebbe aspettare. La storia è questa: negli anni ’70 Donald Knuth elaborò il sistema tipografico “TeX”, rivolto soprattutto alla composizione di formule matematiche comunque intricate. Usò come nome la sillaba iniziale di “Technical”, ma sostituì il gruppo “ch” con la “chi” greca, che si scrive come una “X”. A mio avviso non fu una buona idea: ebbe l’effetto di relegare il suo sistema a un ambiente di “iniziati”, che come prima cosa dovevano saperne pronunciare il nome. Figuriamoci in Italia poi, dove il nome TEX è legato a quello di un personaggio dei fumetti. Hai voglia di pronunciarlo “Tech”: quando poi devi scriverlo o descriverlo, ecco che trovi subito le prime difficoltà. Prova poi a doverlo cercare sulla rete: sarai sommerso da pagine e pagine di cow-boy e giornaletti per collezionisti. Insomma il buon Knuth poteva fare una scelta meno snob, a tutto vantaggio della comunicazione.

Le cose peggiorano con LaTeX, opera di Leslie Lamport, un altro genio che negli anni ’80 utilizza il motore di TeX per costruirci sopra un vero e proprio linguaggio markup rivolto alla preparazione di documenti comunque complessi, dal volantino al libro. Per il nome pensò di usare le prime due lettere del cognome come prefisso, da cui “La”"TeX”. Buona idea? Mah. Intanto, anche questo va pronunciato con la “ch”  finale, e poi provate a fare una ricerca su Internet con questa parola chiave: “latex”. Dovrete districarvi tra siti sado-maso con frustini e costumi, appunto, in latex (lattice) spesso nero o rosso. Altro che cow-boy! E poi, nuovamente, ricadiamo nel campo degli ambienti per “iniziati”. Anche voi, se volete trovare qualcosa in rete dovrete imparare a cercare LaTeX alternando maiuscole e minuscole e aggiungendo qualche termine inerente alla tipografia.

E veniamo alla seconda domanda: cosa si può fare con LaTeX? La risposta è: tutto ciò che riguarda la composizione tipografica, la preparazione di libri, riviste, testi in generale, con la massima cura, la più ampia varietà di stili, di font, avendo a disposizione una comunità mondiale di esperti che continuamente mettono in condivisione nuovi formati e tipi di caratteri e sono sempre disponibili a risolvere problemi anche complessi. Il tutto a costo zero, su una qualunque piattaforma, teoricamente anche con un semplice browser.

E allora (prima domanda): come mai se chiedi in giro tra le persone che si occupano di editoria, tipografia, desk-top publishing e simili, difficilmente trovi qualcuno che sappia di cosa si tratta? Ci saranno alzate di spalle con aria di sufficienza del tipo “boh, roba da dilettanti”, oppure qualcuno potrebbe rispondere: “sì, ne ho sentito parlare, ma sembra una cosa complicata”.

Dato che sono ormai parecchi anni che mi occupo di questo sistema, e devo dire con grande soddisfazione, ho deciso di dare un contributo alla sua diffusione. Sto preparando la nuova edizione di un libro che scrissi negli anni ’90, e tra breve aprirò un canale che possa accogliere gli interessati ma anche i semplici curiosi. Dunque, come dicono gli addetti ai lavori: Buon LaTeXing a tutti! (L. Mureddu)

(… Un primo passo? Provate a partire da qui.)

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Preferirei di no

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“Duecento anni fa nasceva Herman Melville. Autore di “Moby Dick”, certo. Ma anche di uno dei racconti 
più celebri della letteratura americana. Che anticipava col suo  “preferirei di no” il dissenso nei confronti di una società avviata verso il trionfo del dio denaro…”

Un articolo di Giuseppe Culicchia su l’Espresso, 12 aprile 2019 ridisegna il personaggio di Bartleby, negativo per tutti, inviso a datore di lavoro e colleghi, alla luce di un’idea di ribellione al sistema, nella fattispecie quello della sottomissione al “dio denaro”, al “dio lavoro”.

Leggi l’articolo

La vera Pasqua era l’attesa della Pasqua

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Iniziava alcune settimane prima, con un mazzo di cartoncini di auguri pasquali. Una sera babbo diceva: dobbiamo mandare gli auguri di pasqua. state qui così li firmate anche voi. I cartoncini erano bellissimi, con morbidi pulcini gialli, coniglietti, agnelli bianchissimi, cestini di uova, nastri svolazzanti, calessi tirati da piccoli cavalli sorridenti, bambini e bambine vestiti con colori vivaci e primaverili. Babbo aveva una minuscola agenda con tutti gli indirizzi: zio Giorgio in Venezuela, zia Maria a Roma, zio Elio a Velletri e così via. Nomi mitici e misteriosi per noi che non li conoscevamo. Ma c’erano anche gli ex vicini di casa che invece conoscevamo bene e ci ricordavano i tempi di quei luoghi. Dunque, vediamo… prendeva un  biglietto, lo apriva, questo va bene per zia Maria, e mentre cercava la frase da scrivere, la penna cominciava a muoversi, con gli stessi movimenti della scrittura ma senza alcun contatto, come prendere una rincorsa. E quando cominciava a scrivere veniva fuori una frase bellissima, originale, perfettamente adatta al destinatario. Babbo era bravissimo a pensare e scrivere frasi di tutti i generi, auguri, inviti, condoglianze, con una calligrafia elegante, inclinata, perfettamente allineata in righe immaginarie che contenevano le minuscole e le maiuscole tutte alla stessa altezza, come nei quaderni a righe di seconda. In fondo c’era la firma con svolazzo finale, che ho tentato inutilmente di imitare in molte occasioni. Ora il nostro compito era quello di rovinare quel capolavoro, aggiungendo i nostri nomi. Dai,  bambini, firmate anche voi. Tu, qui! ma non così piccolo! scrivi bene! possibile che non sappia neppure scrivere il tuo nome!? erano brevi momenti di ansia da prestazioni, ma poi alla fine l’atmosfera era bella, e quel rito segnava l’inizio dell’attesa della Pasqua.

In realtà, mamma aveva già lavorato molto per la Pasqua nelle settimane precedenti, cucendo o comprando gli abiti nuovi per le bambine, gli scamiciati da abbinare con camicetta bianca con i pizzi, calze bianche lunghe al polpaccio, un po’ traforate, e scarpette primaverili, e andando a comprare qualcosa di nuovo anche per i maschietti e le ragazze più grandi, qualcosa da indossare proprio nel giorno di Pasqua, insieme a un paio di scarpe nuove ciascuno. Perché a Pasqua tutto deve essere nuovo, pulito, perfetto. E naturalmente c’era il barbiere per noi maschietti, e qualche taglio casalingo per i capelli delle femminucce.

La domenica delle Palme aveva il suo bel fascino, era la porta che introduceva a quella strana settimana di contrizione, dolore e tripudio, come la porta di Gerusalemme che fu attraversata tanti secoli fa a dorso di un asinello, in un trionfo di sole, folla, palme intrecciate e ramoscelli d’ulivo. Ci faceva capire che c’eravamo, ormai, quasi.

Anche a scuola c’era una fase preparatoria. Si parlava dei tradimenti, dei processi sommari, delle vicende dolorose della Passione e del tripudio della Resurrezione, come se fossero cose reali, storia. D’altra parte allora c’era ancora una religione di Stato, ed era quella. Si studiavano poesie da recitare poi a casa, si facevano disegni colorati con tanto giallo, arancione e celeste. La Santa Pasqua era veramente sentita da tutti. E la primavera si faceva vedere fuori dalle grigie finestre. Fino al brevis lectio del mercoledì, inizio ufficiale di quelle brevissime vacanze.

Partiva il grosso delle attività preparatorie. Tornando da scuola si trovava la casa stravolta dal turbinio delle pulizie di Pasqua (che allora si facevano veramente) e che coinvolgevano tutti. Io mi trovavo spesso a dover lucidare le maniglie d’ottone col sidol, o a dare una miscela di olio e aceto alle sedie del tinello (il “pronto” ancora non c’era), o a pulire sopra gli armadi, dato che ero ancora piccolo. Mi issavano su e provvedevo a raccogliere tutta la polvere con un panno umido. Si formavano degli strani gnocchi nerastri, ed era divertente.

Prima che arrivasse la sera di quel primo giorno di festa la casa era pulita, profumata, incerata e lucidata, e le nostre coscienze erano pulitissime, perché se non avevamo neppure aperto la cartella di scuola avevamo un ottimo motivo. Intanto, forse proprio quel giorno, forse il giorno dopo babbo portava la colomba e le uova di pasqua. Sette uova: uno per ciascuno dei figli e uno più grande e pesante per mamma. Tutte fruscianti e crocchianti col loro rivestimento di cellofan e la stagnola sotto. Ognuno aveva il suo, sapeva qual’era, ma non poteva toccarlo. Lo guardava, allineato con gli altri sul buffet della camera da pranzo, insieme con la dolce colomba. Di nascosto lo agitavo per sentire il peso della sorpresa, fosse magari una macchinetta metallica, con le ruote molleggiate, o un’armonica a bocca, chissà.

Il culmine dei preparativi della Pasqua coincideva con la decorazione delle uova sode. Questo ricordo mi ricorda che allora le uova erano bianche, non marroni come oggi. Era bello decorare le uova bianche. Alcune venivano messe a bollire direttamente con qualche colorante, per esempio spinaci, barbabietola, zafferano. Erano belle già così, verdine, gialle, rosa, tutte in un cestino. Ma diventavano bellissime con occhi e becco, code e aluccie di carta, orecchie e coda da coniglio, sombrero e baffoni messicani e così via. Quelle uova stavano lì, a decorare il centrotavola, per i giorni precedenti, e poi per tutto il giorno di Pasqua. Erano da mangiare il giorno di pasquetta, magari in gita.

E poi c’era il giro delle sette chiese, che potevano essere anche cinque o tre, un pomeriggio con mamma, e nell’aria c’era sempre attesa, con i paramenti abbrunati ma con la consapevolezza dell’imminente trionfo. E spesso il venerdì santo il tempo era grigio e mi pareva giusto che dovesse esserlo (almeno a questo doveva pensarci Dio), e la radio non trasmetteva musica leggera e canzonette, ma solo musica classica per favorire la meditazione.

Il sabato era dedicato ai preparativi per il pranzo del giorno dopo, che doveva essere memorabile. Il menù era ricchissimo: ravioli di ricotta, agnello arrosto o in tegame o entrambi, patatine novelle rosolate intere, frittate di favette, di piselli, di asparagi; formaggi, frutta, e poi infine i dolci, il gateau di mandorle, le ciambelle. E infine ci sarebbe stata la colomba e si sarebbero finalmente aperte le uova, mangiato un pezzo di cioccolato, giocato con la sorpresa. Tutto bello nell’aspettativa, ed era bello collaborare, sbucciando piselli e favette, sgusciando mandorle, girando la manovella della macchina per la pasta. E la sera c’era il bagno per tutti, con lo sciampo che bruciava gli occhi ma mamma ci diceva di non piangere, che ci faceva venire gli occhi azzurri. Anche babbo faceva il suo bagno e si preparava, in modo che si andasse a letto tutti puliti e pronti per il giorno dopo. Prima di coricarci noi bambini facevamo un’ultima cosa, “segreta”. Preparavamo la letterina di auguri e buone intenzioni da mettere sotto il tovagliolo dei genitori per il pranzo pasquale. “Cari babbo e mamma, nell’occasione della Santa Pasqua…”, con le cornicette e qualche decorazione più o meno riuscita. Infine si andava a letto, con lo spirito più pasquale del mondo.

 ”Oggi è Pasqua” è il primo pensiero del mattino, al risveglio. Giornata speciale fin dalla colazione, con un pane dolce con le uova cotte intere dentro, e con la cioccolata al posto del caffellatte. E poi ci sono tutti i riti programmati: la vestizione e la sfilata davanti a babbo, che si goda almeno per un minuto i figli puliti, ben vestiti e con i capelli bagnati per far stare a posto la pettinatura. E poi la messa speciale cantata e suonata (solo noi bambini: babbo è anticlericale e mamma “prega per conto suo”); le visite ai nonni, tutti in fila a prenderci un bacio e un dolcino, e certe volte anche un bicchierino di qualche strano liquore al mandarino. E poi si torna tutti a casa, quasi all’ora di pranzo.

Spesso ci sono ospiti, zii e cugini, e il pranzo è davvero spropositato, ma non per la capacità gastrica di un bambino degli anni ’60, e dura molte ore con le tante portate, con le letterine e le poesie in piedi sulla sedia; e infine si portano le uova di pasqua, e da quel momento cominciano le delusioni, e rapidamente la Pasqua finisce, dopo tutti quegli infiniti, meticolosi preparativi, davanti a un pezzo di cioccolato profumatissimo, a rigirarsi tra le mani un porcellino di plastica rosa. E improvvisamente riappare in mente la cartella di scuola, i compiti non ancora finiti, il secondo trimestre da finire e il terzo ancora da cominciare, e l’estate ancora lontanissima. Con la magra consolazione del lunedì di pasquetta, ottimo giorno per uno che è ghiotto di uova sode, colorate o no, in gita o a casa, a fare un picnic in tinello, con gli avanzi.

(L.M. 04/19)

 

Italia domanda

Il settimanale “Epoca” fu moderno per i suoi tempi, basando la sua forza su pochi ma stabili elementi, per esempio alcune rubriche destinate a creare dibattito e, come si direbbe oggi, fidelizzazione. Alcune di queste si basavano sulle lettere dei lettori, per esempio “Dalla parte di lei”, curata per molti anni da Alba de Cespedes, di cui abbiamo parlato diffusamente in queste pagine e di cui abbiamo pubblicato un estratto in volume alcuni anni fa (Dalla parte della Ragione). Un’altra rubrica-pilastro fu Italia domanda, numerose pagine dedicate a fornire risposte ai più svariati quesiti del lettori, dall’esistenza dell’anima ai viaggi interplanetari. Un apposito team di “risponditori” era pronto a ricevere le domande che via via arrivavano e venivano smistate secondo la competenza. Ciò che non tutti sanno è che questa rubrica fu ideata e condotta nei primi tempi da Cesare Zavattini, il quale anzi l’aveva progettata inizialmente come una pubblicazione a sé stante, ma non riuscì mai a farla partire. Ci riuscì con l’aiuto di Mondadori, e andò avanti per parecchi mesi. Poi abbandonò per disaccordi ideologici con l’Editore, ma la rubrica Italia domanda continuerà per tantissimi anni.

Su una pagina culturale del Sole 24 Ore di qualche anno fa si parla proprio di qesta vicenda, in occasione dell’allora 50° anniversario della fondazione di Epoca. Ci permettiamo di linkare qua sotto l’articolo di Laura Leonelli tratto dall’archivio:

Quando Zavattini fece “Epoca”

Abbastanza Cagliari

topolino-cagliari-gray

ecco-cagliari-coverSembra quasi che i cagliaritani, pur amando la loro città, nutrano una specie di understatement nei suoi confronti, come se la considerassero un dato di fatto, una cosa né più bella né più brutta di tante altre. Lo stesso atteggiamento usano nel parlare: mai superlativi; le cose buonissime sono al massimo “abbastanza buone”, una ragazza bellissima è “bellina” per un cagliaritano, e con “un paio” di libri ci fa una biblioteca. Per questo non è facile trovare lodi sperticate, amori sconfinati, descrizioni entusiastiche negli scritti su questa città, e bisogna ricorrere anche un pochino agli stranieri e comunque ai non sardi.

Se cerco nella memoria, i miei vecchi che raccontavano le cose belle e le cose brutte, pian piano mi accorgo che l’amore viene fuori, e ovviamente anche la nostalgia e il dolore per le tragedie, e l’orgoglio per le tradizioni, anch’esse un pochino snobbate come la sagra di Sant’Efisio che richiama visitatori da tutto il mondo, e la cucina particolare, che veniva risolta in un semplice “mia nonna faceva così”.

Ho fatto questo piacevole esercizio: cercare Cagliari in letteratura, come appare appena accennata dentro un romanzo di Giorgio Todde o di Carlo Levi, come viene descritta fino agli odori o ai profumi dal grande Lawrence, come viene sezionata fino al minimo dettaglio dell’ultimo lampione stradale dall’ottocentesco Goffredo Casalis, e così via con quello che si trova. Ovviamente non tutto e non di tutti, giusto un assaggio di qualcuno, soprattutto quelli che mi hanno colpito. Sono una ventina di autori, e di ciascuno ho preso un frammento, una prospettiva originale. È questa l’origine del volumetto ecco Cagliari, che viene presentato in questi giorni da Xedizioni con il contributo grafico originale, per la copertina, di Enrica Massidda.

Il risultato si può sfogliare nella nostra sede di via dei Genovesi 38/40, e tra qualche giorno in alcune librerie di Cagliari. Io personalmente ne sono abbastanza soddisfatto. (L.M.)

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