Da Sardegnasoprattutto un articolo di Leonardo Mureddu dell’Italia degli anni 50

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Come molti sardi vengo da una famiglia un po’ chiusa, legata alle tradizioni locali. Mia nonna apparteneva a quella generazione di donne sagge che trovavano naturale tirare il collo a una gallina che fino al giorno prima avevano chiamato per nome, e la stessa gallina sembrava tutto sommato accettare questo suo destino.

Poi ci fu la guerra, seguita dal bisogno di ricostruire, di normalizzare. Molti emigrarono, altri prendevano il lavoro che trovavano. Mio padre vinse un concorso come contabile nell’amministrazione carceraria. Accettò il posto “provvisoriamente”, in attesa di meglio, ma poi mise su una famiglia di sei figli e lo tenne per tutta la vita.

Quell’impiego governativo comportava trasferimenti di sede: ecco perché a un certo punto ci imbarcammo sulla motonave “Città di Tripoli” che ci portava a Napoli, e da lì un piccolo vaporetto ci sbarcò a Procida. Erano gli anni ’50, avevo cinque anni allora. Andammo a vivere sul punto più alto dell’isola, la “Terra Murata” dove c’erano le carceri.

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