Articoli per 2019

nella misura in cui…

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linus-7704-02Non provo mai nostalgia, non certo per i “bei tempi” o per i “miei tempi”. Ma oggi, sfogliando una copia di Linus del 1977 ho provato dolore, come quello che si può provare guardando la vecchia foto di una “quasi” fidanzata con cui non si è stati mai: una cosa antica, possibile allora ma perduta per sempre. È  dolore per la perdita di un periodo storico che si è bloccato a metà ed è rimasto laggiù, col partito (si chiamava così, scritto minuscolo e senza altre specificazioni) che aveva “quasi” raggiunto il traguardo, con il femminismo, le conquiste sociali, le lotte sindacali, il diritto allo studio, le 150 ore di scuola serale per i lavoratori, le mille assemblee con i milioni di sigarette, le manifestazioni con gli striscioni, la borghesia piccola piccola che si sentiva alle corde e reagiva con la paura. È stato forse l’ultimo periodo che conosco nel quale la parola, detta o scritta, aveva la sua dignità. Si andava, almeno apparentemente, verso qualcosa.

Il ’68 ormai lontano aveva creato una generazione strana, forse piuttosto povera di ironia ma convinta che la cultura avesse importanza: per questo si leggeva molto, si andava molto al cinema e se ne discuteva, si leggeva anche tra le righe dei versi delle canzonette, in cerca dell’impegno o del disimpegno. O eri dentro, o eri fuori. Ma quella del ’77 era la nuova generazione, che oltre a tutto ciò si voleva anche riprendere il gusto della risata, dello sberleffo, della mascherata. Quelli del ’77 si volevano liberare dal muso togliattiano, volevano anche poter urlare “scemo, scemo!!” all’oratore di turno, e fargli la danza degli indiani metropolitani.

Certo non erano anni belli, quelli, c’era la lotta armata per le strade, c’erano gli odiati “celerini” in tenuta da sommossa che sparavano proiettili di gomma per disperdere le manifestazioni, c’era anche sangue. Anche prima ce n’era stato con le terribili stragi, ma adesso stava capitando qualcosa di nuovo: erano le stesse ali dei movimenti che cominciavano a far sul serio con la violenza. Era il terrorismo della guerriglia. E quella è una storia che conoscono tutti.

Ma tornando al fascicolo di Linus che ho per le mani, aprile 1977, trovato in una bancarella, mi sembra di rimettere piede dopo tanti anni in una casa dove tutto si è fermato. Oreste del Buono col suo editoriale “nella misura in cui…”, casualmente l’ultimo, molto pessimistico, della sua carriera di direttore, la redazione tutta femminile (tutta!), le lettere che da sole fanno letteratura, e tutto il resto che fa pensare a un percorso difficile, faticoso, ma ormai avviato. Senza parlare ovviamente delle strisce comiche che ospita, i Peanuts, Doonesbury, Feiffer, Corto Maltese eccetera.

Linus entrava nelle case insieme all’Unità, al Manifesto e all’Espresso, ed era la parte satirica ma non troppo, leggera ma non troppo, dell’informazione e del dibattito politico. Corrispondeva vagamente al concetto di “comune” come la si interpretava allora: una convivenza tra persone di idee differenti, formazioni differenti, ma un’unica base democratica e una tendenza al rispetto di regole non scritte, per esempio quella di evitare l’insulto. Come sappiamo le comuni non hanno mai funzionato, e forse è questa la causa che ha chiuso anche quel periodo.

Ecco, il 1977 è un libro di promesse che non verranno mai mantenute, di azioni cominciate, germogli che si sono seccati, strade che improvvisamente sono crollate trascinando tutto nel fiume. Questo è il motivo del dolore. E mi chiedo sempre quanto io stesso sia stato responsabile nel mio piccolo di tutto ciò. (L. M.)

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What’s in a name

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awardUna storia di editoria open source e del motivo per cui, ogni volta che voglio parlare di un argomento che studio da decenni, sento prima il bisogno di scusarmi per il nome che porta.

(‘A rose with any other name would smell as sweet‘)

Permettetemi di dubitare dell’affermazione contenuta nel famoso verso di Shakespeare: il nome può cambiare tutto, e non servirebbero esempi per rendersene conto. Ve ne faccio solo uno piuttosto divertente. Negli anni ’80 la Fiat produceva in Italia un’auto di grande successo, la Ritmo, l’erede della vecchia 1100, l’auto per le famiglie. Quando tentò di esportarla negli Stati Uniti, dopo la costosa e scenografica presentazione newyorkese qualcuno chiese: “ma volete veramente vendere qui un’auto con questo nome?” E spiegò che la parola “ritmo” in slang americano è legata al ciclo mestruale, dunque poco adatta all’immagine di una vettura. Per questo motivo la Ritmo, in America si chiamò “Strada”. Non ebbe un grande successo neppure con quel nome: forse gli americani non erano ancora pronti per le auto compatte. Ma veniamo al nostro argomento.

Open Source significa letteralmente “Codice Sorgente aperto”, ossia disponibile per l’utilizzo libero, le modifiche, la ridistribuzione. Conosciamo tutti degli ottimi esempi di questa filosofia di sviluppo del software: il sistema operativo Linux, il browser Firefox, il pacchetto Open Office e tantissimi altri. Tutti questi sistemi vivono una loro vita parallela rispetto ai sistemi proprietari (e di conseguenza chiusi), sviluppati e venduti per scopi commerciali, e in genere detenuti da grosse società multinazionali, come MicrosoftAdobe o Apple.

È nel campo delle applicazioni professionali che i software proprietari detengono quasi sempre il mercato, e quasi il monopolio: provate a fare l’ingegnere senza avere una licenza Autocad, tanto per fare un esempio. Inoltre, se prima era possibile acquistare un pacchetto software una volta per tutte e tirare avanti con quello, oggi molti di questi pacchetti vengono rilasciati in “abbonamento”, e quindi producono un costo mensile (o annuale) non sempre irrilevante.

Passando all’editoria, non c’è dubbio che per la composizione tipografica professionale occorrano pacchetti software di alto livello, sia per lo sviluppo della grafica, sia per l’impaginazione dei testi. In questo campo, pur non essendoci un vero e proprio monopolio, esiste un predominio dei pacchetti prodotti da Adobe e installati su piattaforme Macintosh. Si tratta di investimenti quasi obbligatori per chi vuole effettuare pubblicazioni ad alto livello tipografico. Anche in questo caso, oltre all’acquisto delle macchine occorre provvedere all’abbonamento alle licenze d’uso del software.

Esistono alternative? Una ci sarebbe, ed esiste ormai da quasi quarant’anni. Si tratta del sistema LaTeX, che tutti i professionisti della ricerca scientifica conoscono bene. Lo sapete che quasi tutte le riviste di Medicina, Chimica, Astrofisica, Matematica, piene di formule, grafici, immagini, riferimenti bibliografici complessi, sono composte con LaTeX? E che Wikipedia usa LaTeX per il rendering di tutte le formule matematiche che pubblica? Allora, come mai il mondo degli utenti comuni non ne conosce neppure l’esistenza? Seconda domanda: cosa è possibile fare con LaTeX? Terza domanda: perché ha questo nome?

Cominciamo dall’ultima, la cui risposta secondo me rivela molto più di ciò che ci si potrebbe aspettare. La storia è questa: negli anni ’70 Donald Knuth elaborò il sistema tipografico “TeX”, rivolto soprattutto alla composizione di formule matematiche comunque intricate. Usò come nome la sillaba iniziale di “Technical”, ma sostituì il gruppo “ch” con la “chi” greca, che si scrive come una “X”. A mio avviso non fu una buona idea: ebbe l’effetto di relegare il suo sistema a un ambiente di “iniziati”, che come prima cosa dovevano saperne pronunciare il nome. Figuriamoci in Italia poi, dove il nome TEX è legato a quello di un personaggio dei fumetti. Hai voglia di pronunciarlo “Tech”: quando poi devi scriverlo o descriverlo, ecco che trovi subito le prime difficoltà. Prova poi a doverlo cercare sulla rete: sarai sommerso da pagine e pagine di cow-boy e giornaletti per collezionisti. Insomma il buon Knuth poteva fare una scelta meno snob, a tutto vantaggio della comunicazione.

Le cose peggiorano con LaTeX, opera di Leslie Lamport, un altro genio che negli anni ’80 utilizza il motore di TeX per costruirci sopra un vero e proprio linguaggio markup rivolto alla preparazione di documenti comunque complessi, dal volantino al libro. Per il nome pensò di usare le prime due lettere del cognome come prefisso, da cui “La”"TeX”. Buona idea? Mah. Intanto, anche questo va pronunciato con la “ch”  finale, e poi provate a fare una ricerca su Internet con questa parola chiave: “latex”. Dovrete districarvi tra siti sado-maso con frustini e costumi, appunto, in latex (lattice) spesso nero o rosso. Altro che cow-boy! E poi, nuovamente, ricadiamo nel campo degli ambienti per “iniziati”. Anche voi, se volete trovare qualcosa in rete dovrete imparare a cercare LaTeX alternando maiuscole e minuscole e aggiungendo qualche termine inerente alla tipografia.

E veniamo alla seconda domanda: cosa si può fare con LaTeX? La risposta è: tutto ciò che riguarda la composizione tipografica, la preparazione di libri, riviste, testi in generale, con la massima cura, la più ampia varietà di stili, di font, avendo a disposizione una comunità mondiale di esperti che continuamente mettono in condivisione nuovi formati e tipi di caratteri e sono sempre disponibili a risolvere problemi anche complessi. Il tutto a costo zero, su una qualunque piattaforma, teoricamente anche con un semplice browser.

E allora (prima domanda): come mai se chiedi in giro tra le persone che si occupano di editoria, tipografia, desk-top publishing e simili, difficilmente trovi qualcuno che sappia di cosa si tratta? Ci saranno alzate di spalle con aria di sufficienza del tipo “boh, roba da dilettanti”, oppure qualcuno potrebbe rispondere: “sì, ne ho sentito parlare, ma sembra una cosa complicata”.

Dato che sono ormai parecchi anni che mi occupo di questo sistema, e devo dire con grande soddisfazione, ho deciso di dare un contributo alla sua diffusione. Sto preparando la nuova edizione di un libro che scrissi negli anni ’90, e tra breve aprirò un canale che possa accogliere gli interessati ma anche i semplici curiosi. Dunque, come dicono gli addetti ai lavori: Buon LaTeXing a tutti! (L. Mureddu)

(… Un primo passo? Provate a partire da qui.)

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Preferirei di no

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bartleby-the-scrivener

“Duecento anni fa nasceva Herman Melville. Autore di “Moby Dick”, certo. Ma anche di uno dei racconti 
più celebri della letteratura americana. Che anticipava col suo  “preferirei di no” il dissenso nei confronti di una società avviata verso il trionfo del dio denaro…”

Un articolo di Giuseppe Culicchia su l’Espresso, 12 aprile 2019 ridisegna il personaggio di Bartleby, negativo per tutti, inviso a datore di lavoro e colleghi, alla luce di un’idea di ribellione al sistema, nella fattispecie quello della sottomissione al “dio denaro”, al “dio lavoro”.

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La vera Pasqua era l’attesa della Pasqua

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Iniziava alcune settimane prima, con un mazzo di cartoncini di auguri pasquali. Una sera babbo diceva: dobbiamo mandare gli auguri di pasqua. state qui così li firmate anche voi. I cartoncini erano bellissimi, con morbidi pulcini gialli, coniglietti, agnelli bianchissimi, cestini di uova, nastri svolazzanti, calessi tirati da piccoli cavalli sorridenti, bambini e bambine vestiti con colori vivaci e primaverili. Babbo aveva una minuscola agenda con tutti gli indirizzi: zio Giorgio in Venezuela, zia Maria a Roma, zio Elio a Velletri e così via. Nomi mitici e misteriosi per noi che non li conoscevamo. Ma c’erano anche gli ex vicini di casa che invece conoscevamo bene e ci ricordavano i tempi di quei luoghi. Dunque, vediamo… prendeva un  biglietto, lo apriva, questo va bene per zia Maria, e mentre cercava la frase da scrivere, la penna cominciava a muoversi, con gli stessi movimenti della scrittura ma senza alcun contatto, come prendere una rincorsa. E quando cominciava a scrivere veniva fuori una frase bellissima, originale, perfettamente adatta al destinatario. Babbo era bravissimo a pensare e scrivere frasi di tutti i generi, auguri, inviti, condoglianze, con una calligrafia elegante, inclinata, perfettamente allineata in righe immaginarie che contenevano le minuscole e le maiuscole tutte alla stessa altezza, come nei quaderni a righe di seconda. In fondo c’era la firma con svolazzo finale, che ho tentato inutilmente di imitare in molte occasioni. Ora il nostro compito era quello di rovinare quel capolavoro, aggiungendo i nostri nomi. Dai,  bambini, firmate anche voi. Tu, qui! ma non così piccolo! scrivi bene! possibile che non sappia neppure scrivere il tuo nome!? erano brevi momenti di ansia da prestazioni, ma poi alla fine l’atmosfera era bella, e quel rito segnava l’inizio dell’attesa della Pasqua.

In realtà, mamma aveva già lavorato molto per la Pasqua nelle settimane precedenti, cucendo o comprando gli abiti nuovi per le bambine, gli scamiciati da abbinare con camicetta bianca con i pizzi, calze bianche lunghe al polpaccio, un po’ traforate, e scarpette primaverili, e andando a comprare qualcosa di nuovo anche per i maschietti e le ragazze più grandi, qualcosa da indossare proprio nel giorno di Pasqua, insieme a un paio di scarpe nuove ciascuno. Perché a Pasqua tutto deve essere nuovo, pulito, perfetto. E naturalmente c’era il barbiere per noi maschietti, e qualche taglio casalingo per i capelli delle femminucce.

La domenica delle Palme aveva il suo bel fascino, era la porta che introduceva a quella strana settimana di contrizione, dolore e tripudio, come la porta di Gerusalemme che fu attraversata tanti secoli fa a dorso di un asinello, in un trionfo di sole, folla, palme intrecciate e ramoscelli d’ulivo. Ci faceva capire che c’eravamo, ormai, quasi.

Anche a scuola c’era una fase preparatoria. Si parlava dei tradimenti, dei processi sommari, delle vicende dolorose della Passione e del tripudio della Resurrezione, come se fossero cose reali, storia. D’altra parte allora c’era ancora una religione di Stato, ed era quella. Si studiavano poesie da recitare poi a casa, si facevano disegni colorati con tanto giallo, arancione e celeste. La Santa Pasqua era veramente sentita da tutti. E la primavera si faceva vedere fuori dalle grigie finestre. Fino al brevis lectio del mercoledì, inizio ufficiale di quelle brevissime vacanze.

Partiva il grosso delle attività preparatorie. Tornando da scuola si trovava la casa stravolta dal turbinio delle pulizie di Pasqua (che allora si facevano veramente) e che coinvolgevano tutti. Io mi trovavo spesso a dover lucidare le maniglie d’ottone col sidol, o a dare una miscela di olio e aceto alle sedie del tinello (il “pronto” ancora non c’era), o a pulire sopra gli armadi, dato che ero ancora piccolo. Mi issavano su e provvedevo a raccogliere tutta la polvere con un panno umido. Si formavano degli strani gnocchi nerastri, ed era divertente.

Prima che arrivasse la sera di quel primo giorno di festa la casa era pulita, profumata, incerata e lucidata, e le nostre coscienze erano pulitissime, perché se non avevamo neppure aperto la cartella di scuola avevamo un ottimo motivo. Intanto, forse proprio quel giorno, forse il giorno dopo babbo portava la colomba e le uova di pasqua. Sette uova: uno per ciascuno dei figli e uno più grande e pesante per mamma. Tutte fruscianti e crocchianti col loro rivestimento di cellofan e la stagnola sotto. Ognuno aveva il suo, sapeva qual’era, ma non poteva toccarlo. Lo guardava, allineato con gli altri sul buffet della camera da pranzo, insieme con la dolce colomba. Di nascosto lo agitavo per sentire il peso della sorpresa, fosse magari una macchinetta metallica, con le ruote molleggiate, o un’armonica a bocca, chissà.

Il culmine dei preparativi della Pasqua coincideva con la decorazione delle uova sode. Questo ricordo mi ricorda che allora le uova erano bianche, non marroni come oggi. Era bello decorare le uova bianche. Alcune venivano messe a bollire direttamente con qualche colorante, per esempio spinaci, barbabietola, zafferano. Erano belle già così, verdine, gialle, rosa, tutte in un cestino. Ma diventavano bellissime con occhi e becco, code e aluccie di carta, orecchie e coda da coniglio, sombrero e baffoni messicani e così via. Quelle uova stavano lì, a decorare il centrotavola, per i giorni precedenti, e poi per tutto il giorno di Pasqua. Erano da mangiare il giorno di pasquetta, magari in gita.

E poi c’era il giro delle sette chiese, che potevano essere anche cinque o tre, un pomeriggio con mamma, e nell’aria c’era sempre attesa, con i paramenti abbrunati ma con la consapevolezza dell’imminente trionfo. E spesso il venerdì santo il tempo era grigio e mi pareva giusto che dovesse esserlo (almeno a questo doveva pensarci Dio), e la radio non trasmetteva musica leggera e canzonette, ma solo musica classica per favorire la meditazione.

Il sabato era dedicato ai preparativi per il pranzo del giorno dopo, che doveva essere memorabile. Il menù era ricchissimo: ravioli di ricotta, agnello arrosto o in tegame o entrambi, patatine novelle rosolate intere, frittate di favette, di piselli, di asparagi; formaggi, frutta, e poi infine i dolci, il gateau di mandorle, le ciambelle. E infine ci sarebbe stata la colomba e si sarebbero finalmente aperte le uova, mangiato un pezzo di cioccolato, giocato con la sorpresa. Tutto bello nell’aspettativa, ed era bello collaborare, sbucciando piselli e favette, sgusciando mandorle, girando la manovella della macchina per la pasta. E la sera c’era il bagno per tutti, con lo sciampo che bruciava gli occhi ma mamma ci diceva di non piangere, che ci faceva venire gli occhi azzurri. Anche babbo faceva il suo bagno e si preparava, in modo che si andasse a letto tutti puliti e pronti per il giorno dopo. Prima di coricarci noi bambini facevamo un’ultima cosa, “segreta”. Preparavamo la letterina di auguri e buone intenzioni da mettere sotto il tovagliolo dei genitori per il pranzo pasquale. “Cari babbo e mamma, nell’occasione della Santa Pasqua…”, con le cornicette e qualche decorazione più o meno riuscita. Infine si andava a letto, con lo spirito più pasquale del mondo.

 ”Oggi è Pasqua” è il primo pensiero del mattino, al risveglio. Giornata speciale fin dalla colazione, con un pane dolce con le uova cotte intere dentro, e con la cioccolata al posto del caffellatte. E poi ci sono tutti i riti programmati: la vestizione e la sfilata davanti a babbo, che si goda almeno per un minuto i figli puliti, ben vestiti e con i capelli bagnati per far stare a posto la pettinatura. E poi la messa speciale cantata e suonata (solo noi bambini: babbo è anticlericale e mamma “prega per conto suo”); le visite ai nonni, tutti in fila a prenderci un bacio e un dolcino, e certe volte anche un bicchierino di qualche strano liquore al mandarino. E poi si torna tutti a casa, quasi all’ora di pranzo.

Spesso ci sono ospiti, zii e cugini, e il pranzo è davvero spropositato, ma non per la capacità gastrica di un bambino degli anni ’60, e dura molte ore con le tante portate, con le letterine e le poesie in piedi sulla sedia; e infine si portano le uova di pasqua, e da quel momento cominciano le delusioni, e rapidamente la Pasqua finisce, dopo tutti quegli infiniti, meticolosi preparativi, davanti a un pezzo di cioccolato profumatissimo, a rigirarsi tra le mani un porcellino di plastica rosa. E improvvisamente riappare in mente la cartella di scuola, i compiti non ancora finiti, il secondo trimestre da finire e il terzo ancora da cominciare, e l’estate ancora lontanissima. Con la magra consolazione del lunedì di pasquetta, ottimo giorno per uno che è ghiotto di uova sode, colorate o no, in gita o a casa, a fare un picnic in tinello, con gli avanzi.

(L.M. 04/19)