I fiori dell’amicizia

toklas-stein-1923

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In un articolo apparso in un inserto letterario di Epoca nel 1954 il giornalista Alberto Cavallari presenta un libro di Donald Gallup, dal titolo The Flowers of Friendship (Ed. Alfred A. Knopf, New York 1953). Questo volume, che si può trovare ancora oggi, raccoglie centinaia di lettere ricevute da Gertrude Stein durante la sua vita, e qualcuna anche dopo la morte. Molte firme sono note: Hemingway, Picasso, Matisse, Anderson e tanti altri. Sono questi i “fiori”, testimonianze di una rete di rapporti di vera amicizia che contraddistinguono l’attività della scrittrice.

Secondo Cavallari, che dipinge Stein come una matriarca e una maestra della diplomazia, sono proprio questi rapporti il vero cardine della popolarità e della fama di Gertrude Stein, più della sua stessa arte. Lo dimostra anche il quadro di Manuel Blasco, di cui parliamo nel nostro blog, nel quale le viene riservato un posto proprio matriarcale. Lei stessa dedica l’intero libro Autobiografia di Alice Toklas alla celebrazione delle sue amicizie, e al rimpianto di quelle cessate, citandole proprio come fiori che appassiscono. Molte però non moriranno mai, e moltisimi artisti francesi, inglesi, americani, anche tedeschi dovranno proprio a questa amicizia almeno una parte del loro successo. Compreso Hemingway, compreso Picasso.

Gertrude Stein nel 1945

Leggi tutto l’articolo di Alberto Cavallari

 

Preferirei di no

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“Duecento anni fa nasceva Herman Melville. Autore di “Moby Dick”, certo. Ma anche di uno dei racconti 
più celebri della letteratura americana. Che anticipava col suo  “preferirei di no” il dissenso nei confronti di una società avviata verso il trionfo del dio denaro…”

Un articolo di Giuseppe Culicchia su l’Espresso, 12 aprile 2019 ridisegna il personaggio di Bartleby, negativo per tutti, inviso a datore di lavoro e colleghi, alla luce di un’idea di ribellione al sistema, nella fattispecie quello della sottomissione al “dio denaro”, al “dio lavoro”.

Leggi l’articolo

Italia domanda

Il settimanale “Epoca” fu moderno per i suoi tempi, basando la sua forza su pochi ma stabili elementi, per esempio alcune rubriche destinate a creare dibattito e, come si direbbe oggi, fidelizzazione. Alcune di queste si basavano sulle lettere dei lettori, per esempio “Dalla parte di lei”, curata per molti anni da Alba de Cespedes, di cui abbiamo parlato diffusamente in queste pagine e di cui abbiamo pubblicato un estratto in volume alcuni anni fa (Dalla parte della Ragione). Un’altra rubrica-pilastro fu Italia domanda, numerose pagine dedicate a fornire risposte ai più svariati quesiti del lettori, dall’esistenza dell’anima ai viaggi interplanetari. Un apposito team di “risponditori” era pronto a ricevere le domande che via via arrivavano e venivano smistate secondo la competenza. Ciò che non tutti sanno è che questa rubrica fu ideata e condotta nei primi tempi da Cesare Zavattini, il quale anzi l’aveva progettata inizialmente come una pubblicazione a sé stante, ma non riuscì mai a farla partire. Ci riuscì con l’aiuto di Mondadori, e andò avanti per parecchi mesi. Poi abbandonò per disaccordi ideologici con l’Editore, ma la rubrica Italia domanda continuerà per tantissimi anni.

Su una pagina culturale del Sole 24 Ore di qualche anno fa si parla proprio di qesta vicenda, in occasione dell’allora 50° anniversario della fondazione di Epoca. Ci permettiamo di linkare qua sotto l’articolo di Laura Leonelli tratto dall’archivio:

Quando Zavattini fece “Epoca”

Walter Bonatti era un filosofo

Scardovelli

Le imprese di Bonatti ci hanno sempre apassionato, abbiamo messo a disposizione alcuni estratti di epoca che ne descrivono i dettagli e vi consigliamo di vedere questo filmato dove Scardovelli descrive Walter Bonatti come un filosofo.

cliccate sull’immagine per aprire il filmato.

Scardovelli

AMORE E RIVOLUZIONE

Varvara Stepanova

Varvara Stepanova

Vi segnaliamo l’apertura di una mostra al MAN di Nuoro dal 1°Giugno

AMORE E RIVOLUZIONE, coppie d’artisti dell’avanguardia Russa

Nell’anno del centenario della rivoluzione d’ottobre per amanti della storia dell’arte, ma anche di appassionati di storia del Novecento, di comunicazione, design e fotografia, la mostra intende raccontare lo stretto legame tra arte e vita che le diverse coppie si trovarono a sperimentare, in una fase di intensa collaborazione e di grande impegno, sia artistico, sia politico.

 

I due padri di Pinocchio

collodi

collodiDovendo scegliere tra i suoi due padri forse Pinocchio avrebbe qualche difficoltà, tra quello libresco che conosciamo, il vecchio falegname povero ma onesto, e quello umano, uno scrittore ugualmente squattrinato, ma forse un po’ più spregiudicato e per giunta, giocatore d’azzardo. Che la vita del burattino sia dipesa per tre anni da questo individuo geniale ma inaffidabile, e che poi alla fine se la sia cavata egregiamente come sappiamo, è stata veramente una grande fortuna. Sembrerebbe infatti che l’autore di tanti libri edificanti, da Giannettino a Minuzzolo, ex patriota mazziniano, fosse un uomo irrequieto, dalle fortune alterne e, come tanti scrittori, sempre a caccia di un buon ingaggio per sbarcare il lunario. L’occasione che fece nascere Pinocchio fu l’uscita del primo numero del Giornale per i bambini, supplemento domenicale del Fanfulla. Ecco la storia, tratta da un articolo di Marino Parenti in occasione del cinquantenario della morte di Collodi (“Sapere”, Vol. 11, 1940, p. 48-segg.):

 “S’era sul finire della primavera del 1881. Ferdinando Martini preparando, con l’aiuto di Guido Biagi, l’uscita del Giornale per i Bambini, cercava di accaparrarsi la collaborazione delle migliori penne dell’epoca: e fra queste di Carlo Collodi. Particolarmente insistente era stato il Biagi, che ben conosceva i frequenti disagi economici dello scrittore fiorentino; ma non gli riusciva di ottenere risposta, tanto pigro e ribelle era il Collodi, tormentato dall’invincibile vizio del gioco.

Fu proprio in seguito ad una nottataccia di sfortuna più cocciuta del solito che questi si decise a trar profitto dalle proposte degli amici, scrivendo quattro cartelle d’una Storia di un burattino.

Al Biagi le accompagnava poi con poche righe, tanto laconiche quanto espressive: «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare: ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venir voglia di continuare».

[In quella prima puntata] il racconto non andava oltre la litigata di Geppetto e Mastr’Antonio nella quale il primo accenna appena al proposito di fabbricarsi un «burattino meraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino» (qui sembra proprio Collodi che parla [n.d.r.]).

La collaborazione dovette, senza dubbio alcuno, esser generosamente retribuita dal Martini se il Collodi, nella seconda puntata, decise di impegnarsi a fondo mettendo subito Geppetto di fronte al nome da attribuire al suo burattino: «Che nome gli metterò? Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna».

Ma il Collodi non poteva ancora valutarne il successo. Così le puntate seguivano un pochino gli alti e bassi della sua borsa; e quando all’alba, uscendo dalla bisca di Palazzo Davanzati, sentiva tintinnare qualche soldo nelle saccocce, dava una scrollata di spalle; e di pigliar la penna in mano non se ne parlava se non quando si sentiva più leggero.

Un periodo di fortuna dovette infatti seguire alle prime puntate poiché per due numeri di Pinocchio non se ne parlò più e i bimbi, che già si affezionavano al loro personaggio, dovettero attendere tre settimane prima di far la conoscenza col grillo parlante e di piangere sulle povere estremità del burattino, che s’era addormentato con i piedi nel caldano.

Da allora il racconto procede irregolarmente, a sbalzi, e i brani successivi appaiono nei numeri 7, 10, 11, 16 e 17; il quale ultimo, uscito il 27 ottobre del 1881, lasciava i giovani lettori nell’incertezza che Pinocchio potesse essere raggiunto dai briganti: «E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accorse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati».

Il punto era uno dei meno indicati per una lunga sospensione e i piccoli si tormentavano sulla sorte del povero burattino; e tempestavano di lettere la direzione, che le girava all’autore. Il quale, in tutt’altre faccende affaccendato, parve commuoversi per un momento a quelle tenere voci desolate; e il Martini, rassicurava i lettori nel numero del 10 dicembre: «Il signor C. Collodi mi scrive che il suo amico Pinocchio è sempre vivo, e che sul conto suo potrà raccontarvene ancora delle belline. Era naturale: un burattino, un coso di legno come Pinocchio ha le ossa dure, e non è tanto facile mandarlo all’altro mondo. Dunque i nostri lettori sono avvisati: Presto presto cominceremo la seconda parte della Storia di un burattino intitolata ‘Le Avventure di Pinocchio’».

 Ma fu un fuoco di paglia; e prima che la «bella bambina dai capelli turchini» intervenisse con la sua nota di dolcezza, si dovette aspettare fino al 16 febbraio del 1882, col n. 7 del nuovo anno.

E ancora un colpo mancino della sfortuna costringe il Collodi a piegar la testa sui fogli; e tale colpo fu, che per sei settimane non si ebbero interruzioni. Per ricollegarsi alle ormai lontane puntate, e per giustificarsi anche, il Collodi prima di riprendere il discorso, pose un Preludio, animato da una iniziale figurata nella quale Pinocchio penzola impiccato da un T a mo’ di forca, che anticipa la triste ventura narrata nel capitolo che segue. Dice il Preludio: «Tutti quei bambini piccoli e grandi (dico così, perché dei bambini, in questo mondo ce ne sono di tutte le stature) ripeto, dunque, tutti quei bambini piccoli e grandi che volessero per caso leggere le Avventure di Pinocchio, faranno bene a ridare un’occhiata all’ultimo capitolo della Storia di un burattino uscito nel numero 17 di questo stesso giornale, 27 ottobre 1881. Lettore avvisato, mezzo salvato».

Alla fine di marzo vi fu una nuova interruzione che costrinse i lettori a saltare di pie’ pari tutto il mese di aprile prima di poter riprendere la lettura. Poi le puntate si trascinano ancora per sei settimane, fino al n. 22 del 1° giugno 1882.

Ma il Collodi non ne ha più voglia; forse pensava di smetterla e di abbandonare giornale e burattino; forse la lotta interna fra la voglia di metter finalmente la testa a partito e il fascino del gioco e della vita notturna, lo estenuava, gli toglieva la possibilità di affezionarsi a quella sua creatura, che pur gli aveva dato qualche soddisfazione e che doveva riservargliene di grandissime.

Forse era soltanto un senso di ribellione ad ogni vincolo di scadenza, com’era sempre stato ribelle, da impiegato di prefettura, agli orari e alle gerarchie.

Un bel giorno, fra le numerose lettere che gli pervenivano, una ne giunse al Collodi di un bimbo romano che sembrava condensare il vivo desiderio di tutti i bimbi d’Italia:

«Gentilissimo signor Collodi, — scriveva — il suo Burattino, superiore a tutti i burattini del mondo, perché oltre a divertire istruisce, ci ha messo in uzzolo di sentire la continuazione senza lunghi intervalli. La prego adunque, anche a nome del babbo e della mamma e dei miei compagni di scuola, a scrivere più spesso ed a far sì che il Pinocchio trovi in ogni numero del nostro giornale il posto riservato che si merita».

Il Collodi ebbe evidentemente rimorso di aver sollevato tanto entusiastico interesse in quelle piccole anime ingenue, senza soddisfare fino in fondo la loro legittima curiosità; e ripresa in mano la penna volò d’un fiato verso la trionfale conclusione: nel numero 4 dell’anno III, Pinocchio, diventato bambino, chiederà al padre la ragione di quel cambiamento per averne da Geppetto, quasi una morale, quella saggia attestazione che «quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie».

Qualche mese dopo l’editore Paggi faceva rinascere Pinocchio in volume e il pittore Mazzanti, riprendendo la figura appena accennata dall’anonimo disegnatore del Giornale per i bambini dava al burattino la sua fisionomia definitiva: quella che nessun illustratore, da allora in poi, ha più avuto il coraggio di modificare, da Chiostri, a Mussino, ai Cavalieri, a tanti e tanti altri ancora.”

(L.M. 04/17)

Musica da sfogliare

Belle-of-ManilaC’è stato un periodo nel quale la musica non si vendeva confezionata e pronta da ascoltare, ma veniva pubblicata sotto forma di spartiti, fogli musicali, quaderni, raccolte. Era compito del lettore eseguirla, con la voce e l’accompagnamento di un  pianoforte o in piccole orchestre domestiche. E, come oggi guardiamo la copertina dei nostri cd o dei dischi in vinile per avere un’immagine da legare ai nostri ascolti, così allora quei fogli musicali erano rilegati in copertine evocative, pittoriche, avventurose o romantiche, esotiche o drammatiche a seconda del genere musicale. Vi invitiamo a sfogliare una corposa raccolta di immagini di queste copertine pubblicate da Digital Collections in America alla fine dell’Ottocento:

Sheet Music

Summertime Salon

VENTRE-TORTUE, 1986

La mostra annuale della Robin Rice Gallery “Summertime Salon” presenta il lavoro di 53 artisti che evocano l’estate. Sarà aperta a New York sino all’11 Settembre ma potete visitare la galleria virtuale cliccando qua, o sull’immagine, enjoy!

VENTRE-TORTUE, 1986

 

GLADYS
VENTRE-TORTUE, 1986
GELATIN SILVER PRINT 

Julia Fullerton-Batten

The Wedding Day

 The Wedding Day

Questa settimana la nostra terza pagina è per Julia Fullerton-Batten, una fotografa tedesca che ha un occhio affilato come un bisturi. Luoghi insoliti, modelli di strada, fasi e situazioni di transizione, sono rappresentati in questi scatti quasi cinematografici e surreali. Scorrere la sua Gallery è percorso emotivo con un pizzico di mistero…

Tavole anatomiche di Leonardo

Recto: The muscles of the back and arm. Verso: Studies of the in

Recto: The muscles of the back and arm. Verso: Studies of the inUna delle tendenze più interessanti nell’ambito dei musei e delle librerie è quella di digitalizzare i propri documenti e renderli disponibili in free download, nel nostro piccolo lo facciamo anche noi mettendo a vostra disposizione molto materiale digitalizzato e scaricabile gratuitamente nell’area download e condividendo i preziosi archivi della rete. Come questo link  della Royal Collection Trust di Buckingham Palace, a Londra, che ha messo a disposizione  un corposo insieme di appunti e di schizzi, datati intorno alla fine del 1400, che Leonardo da Vinci aveva dedicato alla rappresentazione anatomica del corpo umano. Tutte le tavole sono disponibili e scaricabili gratuitamente in alta risoluzione. 

Fotografie dai grandi spazi

È difficile separare il ricordo di Walter Bonatti da quello delle sue fotografie. Ed è sorprendente ogni volta scoprire quanto quest’uomo e le sue avventure siano radicati nella memoria e nell’immaginario di un pubblico tanto differenziato per età e interessi.

Il successo di Bonatti, e questo suo durare e rinnovarsi, ha diverse spiegazioni. La più immediata, appunto, è che Walter ha conquistato più di una generazione e più di un pubblico. L’essere stato prima un alpinista di levatura mondiale, poi il fotoreporter-esploratore di un periodico di rilevanza europea, lo ha tenuto complessivamente “in scena” per quasi un trentennio, periodo al quale è seguita l’attività a tempo pieno di autore di libri e conferenziere, durata altrettanto (e lungo più di 50 anni, da quel fatidico 1954, si è peraltro dipanata la vicenda del K2, costellata di polemiche e colpi di scena)… (continua a leggere)

L’Isola dei Metalli

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Rodmund

Nella raccolta “Il sistema periodico”, 21 racconti che Primo Levi dedica ad altrettanti elementi chimici, a un certo punto si parla di Sardegna. Il racconto in questione è “Piombo” (scritto nel 1940), e la zona di cui si parla è il Sulcis, e non poteva essere altrimenti. Il personaggio che racconta in prima persona è un certo Rodmund che viene da un Paese nordico imprecisato, in un tempo imprecisato immerso nella leggenda. Rodmund è appunto un cercatore di piombo. Quello che segue è un breve estratto.

“… Su un punto erano tutti d’accordo, e cioè che navigando verso sud, chi diceva mille miglia, chi ancora dieci volte più lontano, si trovava una terra che il sole aveva bruciata in polvere, ricca di alberi ed animali mai visti, abitata da uomini feroci di pelle nera. Ma molti avevano per certo che a metà strada si incontrava una grande isola detta Icnusa, che era l’Isola dei Metalli: su quest’isola si raccontavano le storie più strane, che era abitata da giganti, ma che i cavalli, i buoi, perfino i conigli e i polli, erano invece minuscoli; che comandavano le donne e facevano la guerra, mentre gli uomini guardavano le bestie e filavano la lana; che questi giganti erano divoratori d’uomini, e in specie di stranieri; che era una terra di puttanesimo, dove i mariti si scambiavano le mogli, ed anche gli animali si accoppiavano a casaccio, i lupi con le gatte, gli orsi con le vacche. […]

Altri ancora raccontavano che lungo le sue coste ci sono fortezze di pietra, grandi come montagne; che tutto in quell’isola è fatto di pietra, le punte delle lance, le ruote dei carri, perfino i pettini delle donne e gli aghi per cucire; anche le pentole per cucinare, e addirittura che hanno pietre che bruciano, e le accendono sotto a queste pentole; che lungo le loro strade, a sorvegliare i quadrivi, ci sono mostri pietrificati spaventosi a vedersi.

Queste cose io le ascoltavo con compunzione, ma dentro di me ridevo a crepapelle, perché ormai il mondo l’ho girato abbastanza, e so che tutto il mondo è paese. Sul fatto dei metalli, però, erano tutti d’accordo; molti mercanti e capitani di mare avevano portato dall’isola a terra carichi di metallo greggio o lavorato, ma erano gente rozza, e dai loro discorsi era difficile capire di che metallo si trattasse: anche perché non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c’era una gran confusione di termini.

 Dicevano per esempio «kalibe», e non c’era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo. Altri chiamavano «sider» sia il ferro, sia il ghiaccio, ed erano cosi ignoranti da sostenere che il ghiaccio delle montagne, col passar dei secoli e sotto il peso della roccia, si indurisce e diventa prima cristallo di rocca e poi pietra da ferro. Insomma, io ero stufo di mestieri da femmina, e in quest’Icnusa ci volevo andare. Ho ceduto al vetraio la mia quota dell’impresa, e con quel danaro, più quello che avevo guadagnato con gli specchi, ho trovato un passaggio a bordo di una nave da carico: ma d’inverno non si parte, c’è la tramontana, o il maestrale, o il noto, o l’euro, pare insomma che nessun vento sia buono, e che fino ad aprile la cosa migliore sia starsene a terra, ubriacarsi, giocarsi la camicia ai dadi, e mettere incinte le ragazze del porto.

 Siamo partiti ad aprile. La nave era carica di anfore di vino; oltre al padrone c’era un capociurma, quattro marinai e venti rematori incatenati ai banchi. Il capociurma veniva da Kriti ed era un gran bugiardo: raccontava di un paese dove vivono uomini chiamati Orecchioni, che hanno orecchie così smisurate che ci si avvolgono dentro per dormire d’inverno, e di animali con la coda dalla parte davanti che si chiamano Alfil e intendono il linguaggio degli uomini.

 Devo confessare che ho stentato ad avvezzarmi a vivere sulla nave: ti balla sotto i piedi, pende un po’ a destra e un po’ a sinistra, è difficile mangiare e dormire, e ci si pestano i piedi l’un l’altro per mancanza di spazio; poi, i rematori incatenati ti guardano con occhi così feroci da farti pensare che, se non fossero appunto incatenati, ti farebbero a pezzi in un momento: e il padrone mi ha detto che delle volte succede. D’altra parte, quando il vento è propizio, la vela si gonfia, e i rematori alzano i remi, sembra proprio di volare, in un silenzio incantato; si vedono i delfini saltare fuori dall’acqua, e i marinai sostengono di capire, dall’espressione del loro ceffo, il tempo che farà domani.

 Siamo arrivati in vista dell’isola dopo undici giorni di mare. Siamo entrati in un piccolo porto a forza di remi: intorno, c’erano scoscendimenti di granito, e schiavi che scolpivano colonne. Non erano giganti, e non dormivano nelle proprie orecchie; erano fatti come noi, e coi marinai si intendevano abbastanza bene, ma i loro sorveglianti non li lasciavano parlare. Quella era una terra di roccia e di vento, che mi piacque subito: l’aria era piena di odori d’erbe, amari e selvaggi, e la gente sembrava forte e semplice.

Il paese dei metalli era a due giornate di cammino: ho noleggiato un asino col suo conducente, e questo è proprio vero, sono asini piccoli (non però come gatti, come si diceva nel continente), ma robusti e resistenti; insomma, nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello.

 Per esempio, ho visto che era giusta anche la faccenda delle fortezze di pietra: non sono proprio grosse come montagne, ma solide, di forma regolare, di conci commessi con precisione: e quello che è curioso, è che tutti dicono che «ci sono sempre state», e nessuno sa da chi, come, perché e quando sono state costruite. Che gli isolani divorino gli stranieri, invece, è una gran bugia: di tappa in tappa, mi hanno condotto alle miniere, senza fare storie né misteri, come se la loro terra fosse di tutti. Il paese dei metalli è da ubriacarsi: come quando un segugio entra in un bosco pieno di selvaggina, che salta di usta in usta, trema tutto e diventa come stranito.

 È vicino al mare, una fila di colline che in alto diventano dirupi, e si vedono vicino e lontano, fino all’orizzonte, i pennacchi di fumo delle fonderie, con intorno gente in faccende, liberi e schiavi: e anche la storia della pietra che brucia è vera, non credevo ai miei occhi. Stenta un po’ ad accendersi, ma poi fa molto calore e dura a lungo. La portavano là di non so dove, in canestri a dorso d’asino: è nera, untuosa, fragile, non tanto pesante.

 Dicevo dunque che ci sono pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano in tracce bianche, viola, celesti: sotto quella terra ci dev’essere un favoloso intrico di vene. Mi sarei perso volentieri, a battere scavare e saggiare: ma sono un Rodmund, e la mia pietra è il piombo. Mi sono subito messo al lavoro. Ho trovato un giacimento al margine ovest del paese, dove penso che nessuno avesse mai cercato: infatti non c’erano pozzi né gallerie né discariche, e neppure c’erano segni apparenti in superficie; i sassi che affioravano erano come tutti gli altri sassi.

 Non so dire come, ma proprio lì era il piombo, lo sentivo sotto i miei piedi torbido velenoso e greve, per due miglia lungo un ruscello in un bosco dove, nei tronchi fulminati, si annidano le api selvatiche. In poco tempo ho comperato schiavi che scavassero per me, ed appena ho avuto da parte un po’ di danaro mi sono comperata anche una donna. Non per farci baldoria insieme: l’ho scelta con cura, senza guardare tanto la bellezza, ma che fosse sana, larga di fianchi, giovane e allegra.

 L’ho scelta cosi perché mi desse un Rodmund, che la nostra arte non perisca; e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano nelle gengive, e si sono fatti azzurri come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell’orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando, Bak der Binnen, che significa appunto «Rio delle Api»: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano «Bacu Abis».”

Leonardo Mureddu

http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/9723

L’illustrazione è di Enrica Massidda

New York Public Library

Cercate di trovare il tempo per sfogliare questo immenso archivio di foto, illustrazioni, cartoline, atlanti… ben 180.000 di pubblico dominio che la New York Public Library condivide con tutti noi. Possono essere scaricate in alta risoluzione e riutilizzate senza nessuna restrizione.                 Go Forth and reuse!

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Migration

Migration

 

Un migrante ha bisogno di essere riconosciuto: dai suoi compagni, dagli abitanti dei luoghi che attraversa. Molti dei riferimenti più comuni ai migranti di ogni epoca e provenienza e alle difficoltà in cui sono sempre stati coinvolti, durante i loro viaggi o nel corso dei tentativi di trovare una nuova serenità all’arrivo, fanno ricorso a utili distinzioni – i motivi, i mezzi, i contesti storici e culturali – che si mutano spesso in facili classifiche. Le creature di questa breve animazione, realizzata da Fluorescent Hill, sono tanto curiosamente diverse da chi offre loro aiuto o indicazioni quanto identiche tra loro. Forse questo è uno dei casi in cui un’astrazione così lontana da opinioni e questioni politiche può esserci utile: questi cinque minuti servono a restituire la dovuta dignità ai migranti; la giusta qualità e complessità ai pensieri che dedichiamo a un fenomeno così difficile da interpretare. Una salutare intrusione del fantastico nella realtà, splendidamente realizzata, che ci regala alcuni nuovi e forse provvidenziali dubbi su ciò che crediamo di sapere.

 

Alice’s Adventures Under Ground

Le avventure di Alice Sotto Terra

Le avventure di Alice Sotto Terra

E’ ormai noto che la principale attività di questo sito è la condivisione, oggi vi proponiamo la versione originale del manoscritto di  ”Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carrol con 37 illustrazioni. 

Le avventure di Alice Sotto Terra

Questo manoscritto – uno dei più cari tesori della British Library – è la versione originale di Alice’s Adventures in Wonderland, di Lewis Carrol, pseudonimo di Charles Dogson, matematico di Oxford. Dogson amava i bambini e divenne amico di Lorina, Alice e Edith Liddel, le giovani figlie del preside del college Christ Church.

Un giorno d’estate del 1862 egli intrattenne le bambine, durante una gita in barca, con una storia sulle avventure di Alice in un mondo magico a cui si accedeva attraverso la tana di un coniglio. La piccola Alice, di dieci anni, restò talmente affascinata che lo implorò di scrivere questa storia per lei.  Ci volle un po’ per Charles per terminare il lavoro con la sua sottile, pulita calligrafia e completarlo con 37 illustrazioni. Alla fine Alice ricevette il libro di 90 pagine, “dedicato a una cara bambina, in memoria di un giorno d’estate”, nel novembre 1864.

Spinto dagli amici a far pubblicare la storia, Dogson riscrisse e ampliò il racconto, eliminando alcuni riferimenti familiari privati e aggiungendo due nuovi capitoli. La versione pubblicata fu illustrata da John Tenniel.

Molti anni dopo, Alice fu costretta a vendere il suo prezioso manoscritto a un’asta. Fu acquistato da un collezionista americano, ma tornò in Inghilterra nel 1948, quando un gruppo di benefattori americani ne fece dono alla British Library in segno dell’apprezzamento del ruolo del popolo britannico nella Seconda Guerra Mondiale.

Potete sfogliare il manoscritto seguendo questo  Link 

 

Giorgio cerca casa

Vi ricordate “I racconti della Ragnatela“? È stato il primo dei nostri “empty book“, qualche anno fa. Tra gli altri racconti ne conteneva uno, che riguardava la vita solitaria ma ricca di immaginazione di un ragazzo che ogni sera esplora un possibile appartamento da comprare, ci vive, in modo virtuale, con una possibile compagna, e alla fine archivia tutto in una cartellina del computer… Buona lettura:

Giorgio cerca casa (di M. Altieri, da I racconti della Ragnatela, Xedizioni 2013)

Verso sera, dopo una giornata lavorativa intensa e stancante, ecco Giorgio davanti allo schermo del pc. Cerca casa. Vuole comprare un appartamento per sé e la compagna. Per fortuna ci sono questi siti di annunci gratuiti che mettono anche le foto dell’interno e di quello che si vede dalle finestre. Giorgio preferisce Homesweethome che ti fa fare un giro virtuale della casa in vendita: via dei Tulipani, ingresso, salone, angolo cottura luminoso con vera cappa aspirante, camera da letto, cameretta, comodo il bagno con l’antibagno, e la verandina con lo stenditoio coperto. Riscaldamento autonomo, però chissà se conviene rispetto al sistema tradizionale a termosifoni, certo comunque che a un piano intermedio sfrutti anche il calore dei vicini, purché scaldino anche loro, altrimenti sei tu che devi provvedere a stemperare le loro pareti. Andiamo giù a guardare il posto auto, ampio, dovrebbe essere possibile entrare e uscire con una sola manovra, e poi lo scooter contro il muro se non hai una macchina troppo lunga, sempre che i condomini non protestino, sai ci sono quelli che vanno in giro a misurare gli ingombri e a farne una questione di principio. Torniamo su a fare ancora un giro, vorrei la piantina per vedere come sistemare i mobili, certo, questa è perfettamente in scala, se ritagli le sagomine di armadi e cassettoni riesci bene a renderti conto delle disposizioni possibili. Magari nella camera da letto si riesce a ricavare la cabina armadio, che piace tanto alle donne. Bella, questa casa piace molto a Giorgio. Tanto che decide di farsi un giro per il quartiere per capire bene come ci si vive: Streetview è l’ideale per trovare la fermata del bus più vicina, il market (che fortuna, proprio quello di cui ho la tessera-punti), l’ufficio postale e la farmacia. Appena possibile chiederò ai vicini qualcosa sull’ambiente, se si tratta di gente tranquilla. Ma mi pare di aver visto solo macchine pulite e gente ben vestita nelle strade, e il primo colpo d’occhio è importante! La vista dal satellite di Google Earth mostra parecchio verde intorno: certo si tratta di un quartiere ben disposto, anche se lontano dal centro. Dovrei parlarne con lei, anche perché il prezzo non è particolarmente basso, ma col mutuo sembra ragionevole e ci possiamo arrivare.

E adesso Giorgio pensa a lei. Dovrà essere romantica ma indipendente, non troppo gelosa, che ami bere un goccio di vino rosso in compagnia, che non ami troppo gli animali sennò vuole subito mettersi in casa un cane o un gatto, e allora addio tappezzeria e cuscini del divano! Deve amare il cinema e le serate con amici, ma anche le cenette tranquille, non troppa tv, un buon libro e l’intimità. L’appartamento è piccolo, sarebbe bene non cominciare subito a sfornare bambini, anche se in effetti una cameretta ce l’abbiamo, ma sai com’è, una stanza di sgombero per l’asse da stiro e un letto per l’ospite (ma quale ospite?) fa sempre piacere. Incontriamoci.it è il sito preferito di Giorgio. Permette di inserire molte foto e descrizioni dettagliate, e poi incrocia i dati per proporti l’anima gemella, o almeno la più gemella tra le possibili. E soprattutto che stia cercando uno come te, altrimenti è tempo perso. Oggi Incontriamoci ne propone due, Silvia e Annalisa. Annalisa sembra promettente, nella foto al mare non si vede tanto bene, ma ha un bel sorriso, e poi è online in questo momento. Proviamo con lei, due chiacchiere giusto per conoscerci, i gusti a tavola (non vorrei capitare con una talebana vegana), aragosta? Certo, ma non troppo spesso, altrimenti le rate del mutuo chi le paga, hahahaha! Simpatica, dai, ci sentiamo ancora, eh? Dai, buonanotte, domani alzare presto per lavorare. Notte.

Bello, mi sto già innamorando, la mia vita con Annalisa nel nuovo appartamento, in quel quartiere verde e luminoso, non le ho chiesto se ha la macchina e dove lavora, magari bisogna cercare un appartamento con due posti macchina, uno coperto e l’altro dove capita, altrimenti parcheggiare in strada, mmm, forse si può trovare di meglio. Anche lei, in quella foto, quei rotoli, e se poi è più grassa di come sembra? Se diventa subito grassa e comincia a rompere le scatole con le diete? Mmm, mi sa, domani quando torno dal lavoro cerco ancora. Due posti auto, una ragazza magra, anche se non ha molto seno non importa, si può sempre rimediare al giorno d’oggi. L’importante è: niente rotoli, e poi tutta quell’aragosta! No, Annalisa, meglio lasciarci adesso che non soffriamo molto. Sono certo che troverai l’uomo giusto, meglio se lo trovi ricco, hehehe! Io serberò un bel ricordo di te, in quell’appartamento con l’antibagno e l’angolo cottura luminoso…

Ora Giorgio archivia Annalisa e la sua vita con lei nell’appartamento di via dei Tulipani, una cartellina nel pc con le foto e la trascrizione della chat, e i link per ritrovare tutto. Sono tante cartelle ormai, tanti bei ricordi. E tanto sonno. Notte Giorgio.

Una valigia piena di sale

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Da Sardegnasoprattutto un articolo di Leonardo Mureddu dell’Italia degli anni 50

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Come molti sardi vengo da una famiglia un po’ chiusa, legata alle tradizioni locali. Mia nonna apparteneva a quella generazione di donne sagge che trovavano naturale tirare il collo a una gallina che fino al giorno prima avevano chiamato per nome, e la stessa gallina sembrava tutto sommato accettare questo suo destino.

Poi ci fu la guerra, seguita dal bisogno di ricostruire, di normalizzare. Molti emigrarono, altri prendevano il lavoro che trovavano. Mio padre vinse un concorso come contabile nell’amministrazione carceraria. Accettò il posto “provvisoriamente”, in attesa di meglio, ma poi mise su una famiglia di sei figli e lo tenne per tutta la vita.

Quell’impiego governativo comportava trasferimenti di sede: ecco perché a un certo punto ci imbarcammo sulla motonave “Città di Tripoli” che ci portava a Napoli, e da lì un piccolo vaporetto ci sbarcò a Procida. Erano gli anni ’50, avevo cinque anni allora. Andammo a vivere sul punto più alto dell’isola, la “Terra Murata” dove c’erano le carceri.

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Sardegna luogo comune

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porceddu-expoLe recenti vicende del maialetto sardo all’Expo, con le levate di scudi e le lance spezzate hanno fonito spunto per parlare di Sardegna. Lo fanno molti articoli, blog, note sulla stampa e sul web. Ne scegliamo due, che in qualche modo si somigliano, sebbene in ambiti, con stili e profondità differenti. La prima è una breve nota di Umberto Cocco apparsa sulla rivista online Sardegna soprattutto, intitolata Ben vengano i “barbari”.

Il secondo pezzo: Luogo comune: Sardegna di Alberto Volpi pubblicato su Doppiozero è un saggio letterario che non risparmia nessuno: da Grazia Deledda a Niffoi e giù fino a Michela Murgia, e conclude “Insomma la Sardegna rappresenta uno dei più potenti stereotipi sul luogo letterario, che meriterebbe di stare in testa a un’integrazione o rovescio dell’Atlante curato da Gabriele Pedullà; stiano quindi attenti il turista e il lettore, nel mettere il piede o l’occhio sull’isola, per non finire in un mondo già da tempo precostruito (a meno che non sia esattamente ciò che vogliono).” (Redazione)

 

I Puppetoons di George Pal

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George Pal, regista di origine ungherese dal nome originale impronunciabile, divenne famoso a partire dagli anni ’30 per aver sviluppato una tecnica di animazione cinematografica originale e di grande effetto. Lui stesso la battezzò Puppetoons, ossia i “cartoons di pupazzi”. Era realizzata con figurine in legno intagliate, colorate e verniciate a mano, delle quali venivano realizzate tantissime versioni con le varie espressioni e posizioni dei personaggi.

Mediante questa tecnica Pal realizzò dapprima degli shorts pubblicitari, e in seguito dei cortometraggi per il cinema. Fu un vero genio degli effetti speciali.

Vale la pena, dopo aver capito come faceva, dare un’occhiata a uno dei suoi lavori, per esempio quello che segue, creato per la pubblicità di un sofisticato apparecchio radio della Philips olandese. Buona visione:

La grande Revue Philips 1938

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Scrittori che non sembrano scrittori

Scrittori

ScrittoriI quotidiani si divertono di tanto in tanto (e divertono i lettori) pubblicando gallerie fotografiche curiose, speciali, a sfondo animalsta o culturale. Questa de “Il Post” è dedicata a scrittori ripresi in pose e in situazioni non convenzionali. C’è perfino Agata Christie su una tavola da surf, e non mancano i “nostri” de Céspedes e Arthur Miller con Marilyn.

Vai all’articolo originale

Incompatibilità di caratteri

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percheQuante volte ci capita di ricevere una mail, o un testo proveniente da un altro computer, e accorgerci che molti caratteri sono stati sostituiti con dei grovigli irriconoscibili. Quelli vecchi, molto vecchi di noi che hanno lavorato con i primi computer conoscono la ragione: è una questione di codifica del carattere. Quando preparo un testo, il programma di scrittura associa a ogni carattere un numero, ed è quello il “codice” del carattere. La base di ogni codifica nei computer è il bit, l’unità binaria. A seconda della lunghezza in bit di una codifica c’è spazio per un numero crescente di simboli. Per esempio con due soli bit si hanno quattro codici (00, 01, 10, 11) che potrebbero essere associati alle prime quattro lettere dell’alfabeto (a, b, c, d) e nient’altro. Con tre bit i codici sono nove e così via. Per rappresentare tutti i caratteri di tutti gli alfabeti del mondo in tutte le loro varianti serve una codifica a moltissimi bit, cosa a cui si sta lavorando. Ma da sempre si sono adottati degli standard, degli insiemi di caratteri codificabili in un numero limitato di bit.

Il codice universale di base si chiama ASCII, creato negli Usa negli anni ‘60. È basato su sette bit, il che fornisce spazio per 128 caratteri differenti. Di questi, solo 95 sono caratteri stampabili veri e propri, gli altri sono codici speciali che servono per dare comandi alla stampante, per esempio “ritorno del carrello” o “interlinea”. Questo set di base è sufficiente per la lingua inglese, che non usa accenti e segni di punteggiatura particolari. Ecco di seguito i 95 caratteri ASCII stampabili:

 

!”#$%&’()*+,-./0123456789:;<=>?@

ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ

[\]^_`abcdefghijklmnopqrstuvwxyz{|}~

 

Sono esposti in ordine di codifica, e sono quasi tutti presenti o ottenibili dalla tastiera del computer con un po’ di abilità. Il primo, invisibile ma stampabile, è lo “spazio”, che ovviamente non ha un corrispettivo “glifo”, ossia un simbolo grafico. Questa, e solo questa, è la codifica che tutti i computer di tutto il mondo capiscono. Qualunque altro carattere è “non standard” e necessita di un previo accordo tra chi spedisce e chi riceve. Un primo passo, ottenuto aggiungendo un solo bit alla codifica (ogni bit raddoppia il numero dei codici possibili) è il cosiddetto “ASCII esteso”, che con 256 caratteri soddisfa quasi tutte le necessità delle lingue europee, fornendo le vocali con accenti acuti e gravi, cediglia, umlaut eccetera. Tuttavia esistono diverse tabelle “ASCII esteso”, per cui si corre il rischio di non ricevere correttamente ciò che ci viene trasmesso da un corrispondente che usi una tabella diversa dalla nostra, anche se dotato di un computer simile al nostro.

La soluzione, nel dubbio, è quella di scrivere i nostri messaggi, o a dare i nomi ai nostri file, usando solo i caratteri della tabella qua sopra. Per noi italiani si risolve nell’usare l’apostrofo al posto dell’accento (e’, sara’, perche’). Si ottiene un testo perfettamente comprensibile, anche se i puristi storcono il naso. Questa è la prassi nella posta elettronica accademica ed è apprezzata dagli altri “puristi”, quelli dell’”ASCII puro”. Certo, uno spagnolo che vuole usare il punto interrogativo rovesciato (¿) non trova niente nella tabella, ma lo trova sulla sua tastiera, e sperabilmente tutti i corrispondenti di lingua spagnola sono in grado di riconoscere quel codice (per inciso, è il codice 168 della tabella estesa europea). I francesi, dal canto loro, pratici come sempre, hanno abolito per legge gran parte delle complicatissime accentazioni della loro lingua, cediglie ed altri segni grafici con i quali, per secoli, si erano torturati i bimbetti di mezzo mondo, dalla Nuova Caledonia al Quebec. Anche in quel caso i puristi storcono il naso, come stanno facendo alla notizia che pian piano viene abolita la scrittura corsiva nelle scuole occidentali. Ma, in definitiva, chi scrive più a mano? Meglio insegnare da subito nelle scuole a digitare rapidamente sulla tastiera, e possibilmente a dieci dita e senza guardare, non come il sottoscritto che usa due dita, per quanto veloci, con gli occhi che inseguono come possono tasti e testo.

Ma cosa ci aspetta per il futuro? Esisterà un codice universale unificato che comprende tutti i caratteri di tutte le lingue del mondo? In realtà, questo codice esiste già, e si chiama UNICODE, e viene sviluppato da un consorzio internazionale. Alla nascita si pensava che 16 bit (circa 65.500 caratteri) sarebbero stati largamente sufficienti per coprire il fabbisogno, e sembrano tantissimi confrontati con i 128 iniziali dell’ASCII. Strada facendo però siamo arrivati a 21 bit, ossia oltre due milioni di glifi, che pare possano coprire tutte le lingue vive e morte conosciute, comprese tutte le varianti delle complicatissime grafie orientali. Il problema è ora riempire le tabelle, cosa che è stata fatta solo parzialmente. Insomma, ci si sta lavorando. Così un giorno, quando scriverò perché, nessuno al mondo riceverà perch☺. (MisterX)

24 maggio

battaglieroO

battaglieroOSi celebrano i 100 anni dall’intervento italiano nella prima guerra mondiale, avvenuto, dopo quasi un anno dall’inizio del conflitto europeo su una spinta di riscatto, gloria, conquista di territori. È il famoso “24 maggio”, in seguito coperto da un alone di romanticismo e di retorica. Ecco una breve cronaca di quei giorni annotata senza retorica da Attilio Frescura, nelle prime pagine del suo “Diario di un Imboscato”. (L’immagine “Battaglieri” è di Enrica Massidda)

I “Terribili„

“…ad Asiago, dove si era certi che ci sarebbe stata la guerra e dove i bersaglieri anticipavano le prove del loro eroismo, prendendo a cazzotti i fanti della Brigata Ivrea “la buffa”, che doveva insegnare loro, più tardi, che l’eroismo è un altro.

È la Brigata Ivrea che ha organizzato ed eseguito il trasporto dei proiettili al forte Verena. Un forte che non ha nessun campo di tiro e che il giorno 24 Maggio 1915, alle quattro del mattino, ha lanciato il primo colpo di cannone.

II 29 venne dato l’ordine di attacco, con delle disposizioni da piazza d’armi e da grosse manovre.

Si prepararono e si chiusero i cofani contenenti le più inutili cose di guerra. E si presero delle provviste, per vivere i giorni di marcia necessari per arrivare a Trento.

Lo Stato Maggiore della Divisione, in automobile e a cavallo, si mosse… Si videro ufficiali fasciati di cinghie lucide ed armati speroni, carichi di carte to­pografiche e di binocoli, correre con aria preoccu­pata, seguiti da coppie di carabinieri a cavallo. Qua è la, persino, qualche elmo lucente di cavalleria.

All’alba del 30 Maggio le truppe mossero: il con­fine si era passato nella notte. Alle case di Vezzena una mina ci dette i primi feriti e il primo morto : il soldato Salvatore Randazzo.

La mina, qualche fucilata, qualche reticolato in embrione, quei feriti e quel morto turbarono lo Stato Maggiore, che credette di aver sostenuto una grande battaglia. Il Comando, esausto, diede l’ordine di sospendere 1′“avanzata„. I soldati, nuovi alla guerra, storditi, sbalorditi, tornarono alle trincee in cerca degli ufficiali e gli ufficiali, corsero affannosamente in cerca di reparti, nei quali era avvenuto un frammischiamento fantastico.

Avvennero dei casi allegri: un grosso ufficiale sente il rumore caratteristico degli otturatori dei fucili che si armano: allora, supponendo di essere scam­biato per un austriaco, si avanzava carponi, urlando :

—       Alt! non sparate! sono l’Italia! — E, in fretta, aggiunge la parola d’ordine, la controparola, poi il suo nome… Avrebbe anche dato l’anima, purché gli lasciassero la pelle, questo… Italia!

Altro episodio :

Una pattuglia si avanza, gira, si perde. Improvvisamente si trova di fronte a un’altra pattuglia. Allora tutte e due, senza guardarsi, urlano:

—         Mi arrendo!

[...]

In tutta la battaglia non si è visto un austriaco. Dovevano ridere, quelli altri, vecchi della guerra, dalla parte opposta, sentendo tutto quel brusìo e quell’ affanno.”

(Attilio Frescura: “Diario di un imboscato”, III edizione 1921)

La donna sarda – Giuseppe Dessì

(Conversazione alla Radio trascritta e pubblicata da Rai-Eri, 1949)

 ”Lo scrittore inglese Lawrence ci ha lasciato un mirabile ritratto della Sardegna in un suo libro che dalla Sardegna prende il titolo (Sea and Sardinia) e che Elio Vittorini ha tradotto in parte nelle Pagine di Viaggio edite da Mondadori. Lawrence ha trovato in Sardegna il tipo virile ideale secondo la sua concezione che esalta le forze primigenie della razza quali si manifestano nella distinzione e insieme nell’armonia dei sessi. Certamente pochi altri paesi si prestano meglio a una simile interpretazione. Del resto egli non fu il solo ad esaltare la fierezza e la virile dignità dell’uomo sardo. Se ne è parlato fino alla nausea, da Padre Bresciani in poi, fino a farne un luogo comune letterario; e tutte le buone qualità morali che ai sardi si riconoscono universalmente, quali la fedeltà, l’amore per la patria e per la famiglia, il coraggio, la lealtà, ecc. ecc., vengon fatte discendere da quella qualità fondamentale. Una volta fatto questo riconoscimento, sia lecito, a me sardo, porre una domanda. Come mai un popolo così ricco di qualità morali e tutt’altro che privo di intelligenza (chiunque sia stato in Sardegna sa che la media dell’intelligenza è elevatissima) non ha lasciato tracce di sé nella storia; come mai la Sardegna non ha avuto nessun grande uomo? Si annoverano insigni studiosi, giuristi, qualche storico, qualche buon generale, ma veri e propri grandi uomini no. Sembra sia negata, a noi sardi, quel tanto di fantasia che occorre per essere dei grandi uomini. Solo due personaggi della storia sarda hanno questo carattere di fantasia: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Ma sono donne, non uomini. Sarebbe interessante studiare il carattere di queste due donne per arrivare a stabilire fino a che punto la loro forza riposi su una concezione matriarcale della vita che solo in parte contrasta con la famosa irsuta virilità degli uomini sardi. Perché una specie di matriarcato vige, in realtà, in Sardegna. Direi un matriarcato clandestino, che non è tornato alle antiche forme barbariche solo per una innata delicatezza e discrezione della donna sarda. Con tutto il rispetto che ho per i miei conterranei di sesso maschile (e con loro buona pace) devo rivelare un segreto che pochi conoscono. La armonia tra i due sessi, che Lawrence esaltò parlando della Sardegna, in realtà non esiste. In Sardegna la società è formata da due parti che legano male, come una medaglia fusa in due metalli diversi. Se noi consideriamo la vita di un qualunque villaggio sardo – la vita di tutti i giorni, in tutti i suoi aspetti – noi vediamo che esiste una differenza profonda tra la vita degli uomini e quella della donna; tra la concezione del tempo che ha l’uomo e quella che ha la donna. E vediamo che tutto ciò che dipende dalla donna funziona, mentre tutto ciò che dipende dall’uomo funziona male. È l’uomo che costruisce la casa, ma le case sarde sono tra le più brutte e le più miserabili che si possano vedere sulla faccia della terra: la donna non solo rende abitabili queste povere case, ma dà loro un’impronta di civiltà con poche cose essenziali. I tappeti che essa fabbrica sono vere e proprie opere d’arte. L’uomo fa le strade, ma le fa male e non ne cura la manutenzione. I veicoli che percorrono queste strade sono ancora quelli dell’età preistorica. Non sarebbe possibile trasportare da un paese all’altro o dal podere alla casa altro che delle pietre, o tutt’al più delle patate. Invece si trasportano dolci, e chi è stato in Sardegna sa quanto squisiti e delicati: si trasportano grazie alle donne. Sono esse che viaggiano con un cestello sulla testa. Io amo il loro lungo passo matriarcale e leggero sotto le vesti scure.

Guai se in Sardegna non ci fossero simili donne. Saremmo senza remissione riprecipitati sulle barbarie di cui stiamo sempre sull’orlo. Pur essendo cessate ormai le ragioni che determinarono quella sorta di urbanesimo che paralizza la vita rurale sarda, i nostri contadini continuano ad abitare grossi agglomerati urbani, e la campagna è deserta. Il sardo, pur in uno spazio ristretto, si sposta come un nomade per andare a coltivare il grano o a pascolare le pecore, dorme all’addiaccio, si cambia la camicia una volta al mese. La donna lo raggiunge come può, gli fa sentire la sua presenza costante, vigile. E quando il contadino o il pastore sperduto nella solitudine trae dalla bisaccia il tovagliolo di lino in cui è avvolto il pane, si spande di là, non soltanto materialmente, la fragranza della casa. Pane e lino si rifanno a una tradizione essenziale quanto antica di civiltà, e solo la donna ne è depositaria e custode. E non credo che sia esagerato affermare che le catalogate virtù di cui noi, uomini sardi, ci fregiamo, e che rientrano nella categoria generica e appariscente della virilità, non siano altro che riflessi di vere, profonde, silenziose e solide virtù femminili a cui nessuno ha finora pensato di dare un nome.

Benché sardo, qualche volta guardo i miei sardi con sorpresa. Non so del tutto spiegarmi certi loro modi, certo piglio eroico. Non che siano degli spacconi: sono sobri nei gesti e nella parola. Pur tuttavia hanno un certo modo di buttarsi il mantello sulla spalla come se andassero a compiere chi sa quali imprese. Invece vanno semplicemente a riportare all’ovile i bidoni vuoti. Si mettono in testa la berretta come un elmo antico, e questo è un po’ esagerato, anche se vanno a caccia del cinghiale. Forse, se invece del mare avessero avuto intorno ai loro monti le pianure dell’Asia, questi cavalieri sarebbero stati dei conquistatori. Anzi saremmo stati, perché ci sono anch’io. Ma noi abbiamo paura del mare. Ne stiamo a rispettosa distanza. E’ questo che ci manca per essere davvero eroici, davvero come ci vedeva Lawrence. Abbiamo una paura ancestrale, invincibile. Chi sa quale immane naufragio ci ha travolti in tempi antichissimi. Basta guardare un sardo per capire che non va d’accordo con l’acqua. Persino i nostri cavalli, quando vedono il mare, puntano i piedi. Ma è la nostra paura che si trasmette ad essi come una scossa elettrica. Sta a noi riscattarcene; ma finora non ci abbiamo ancora pensato seriamente. Io penso alle nostre donne come a tante Penelopi senza Ulisse. Per secoli e secoli sono state al telaio a tessere quei tappeti di cui, noi uomini, siamo fieri, e che sono, in realtà, molto belli. Ma quei tappeti avrebbero il valore che noi uomini gli attribuiamo solo se fossero stati tessuti durante la nostra assenza, mentre noi navigavamo in mari lontani, ed esse erano là, nella antica casa, ad aspettarci. Invece noi eravamo appena a qualche chilometro di distanza, a mungere le nostre pecore, oppure seduti per ore e ore a canticchiare qualche nenia e a tagliuzzare col nostro temibile coltello un gambo d’asfodelo. Mi si dirà che esagero, che i sardi hanno dato prova di esser dei buoni soldati e di poter essere, all’occorrenza, temibili banditi. D’accordo; ma era il meno che potessero fare per tentare d’adeguarsi a donne come le nostre.

Donne così fedeli, così costanti, così coraggiose, così resistenti alla solitudine eran fatte per esser mogli di uomini che non avessero paura del mare e dello spazio, mogli di grandi navigatori. Io me le immagino sedute al loro telaio, ma al centro di continenti e di oceani, punto di partenza e punto di approdo. Povere mogli di eroi deluse! Solo al tempo dei nuraghi i sardi fecero qualcosa di veramente importante. Quella volta furono gli uomini, credo, perché si trattava, per costruire quelle torri a tronco di cono che servivano da fortilizi, si trattava di trasportare e collocare a regola d’arte, dopo averli squadrati, massi di granito del peso, talvolta, di qualche decina di tonnellate. E se si pensa che di queste torri in Sardegna, tra grandi e piccole, se ne contavano circa ottomila, si deve ammettere che i sardi dovessero essere abbastanza bene organizzati. Inoltre, per fare opere del genere, bisognava avere cognizioni architettoniche che presuppongono un alto grado di civiltà. Ebbene, ciò nonostante, non si trova una sola iscrizione dell’età nuragica. È uno dei tanti misteri che gli archeologi non riescono a spiegare in Sardegna. Ma ciò che rende il mistero più interessante, è che questa mancanza di iscrizioni si accorda perfettamente con la ripugnanza innata e persistente nei secoli che i sardi hanno per l’alfabeto. I1 nostro analfabetismo è granitico, nuragico, eppure ci sono dei sardi analfabeti e tuttavia intelligentissimi e anche, in certo senso, civili. Ciò può essere: basta pensare, per esempio, a Carlo Magno. I1 sardo odia l’alfabeto come odia l’acqua. Anche l’alfabeto è spazio, come il mare. Sono due ripugnanze che si spiegano a vicenda. Non così per la donna. La donna sarda non odia punto l’acqua: basta vederle quando vanno al fiume, estate e inverno, indifferentemente. E di solito sanno leggere e scrivere. Ma il fatto veramente degno di considerazione – che è anche il secondo segreto che mi proponevo di rivelare – è questo. Gli archeologi non hanno abbastanza apprezzato il contributo dato dalle donne in genere alla civiltà nella creazione dei simboli che divennero poi ideogrammi, geroglifici e, infine, lettere dell’alfabeto. Forse nessuno ha osservato la delicatezza femminile dei più antichi ideogrammi, tanto egizi che cinesi. Certamente è una mano di donna che li ha tracciati. Potrei darne prove sicure. L’uomo, solo in seguito, col suo razionalismo, li ordinò e coordinò; e ne nacquero geroglifici e alfabeti. Ebbene, la donna sarda non mancò, nemmeno in questo, al suo compito. Osservate i fregi dei suoi tappeti, i ricami delle sue tele di lino: cervi, colombi, galli, fiori… Non sono altro che simboli di un linguaggio ideografico di cui essa offrì all’uomo i rudimenti, ma che l’uomo sardo non seppe o non volle sviluppare. Dò ai miei conterranei questo modesto consiglio: attenti al linguaggio ideografico delle nostre donne! Scherzi a parte, impariamo dalle nostre donne a fare tutto ciò che finora non abbiamo fatto e che avremmo dovuto fare da secoli. Perché non basta essere fieri e virili per essere mariti di Penelope.”

Lontano nel tempo (27 gennaio 1967)

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Ogni anno, alla fine di gennaio, o comunque appena si comincia a parlare del festival, mi ricordo di quel Sanremo. Quello in cui Luigi Tenco si recò con una pistola in valigia e la sua canzone più brutta, nell’estremo tentativo di dimostrare che i ragazzi italiani potevano cambiare, potevano abbandonare i papaveri e le papere, le lacrime sul viso e i gorgheggi dei tenorini, e passare oltre, verso la musica folk e tutto ciò che nel resto del mondo era già una realtà. Fu un doppio suicidio. Il primo perché nel 1967, col festival saldamente in mano a Gianni Ravera, l’indiscusso patron del rilancio commerciale, per poter gareggiare bisognava rinunciare alla propria personalità e accettare le condizioni. Come oggi d’altronde. Queste condizioni riguardavano ogni dettaglio, dall’aspetto fisico (vedi i capelli di Antoine) agli abbinamenti tra gli artisti, fino ai dettagli della canzone. Quella che fu presentata da Tenco era una ballata su un contadino costretto a fare i conti col progresso, a lasciare il mestiere di sempre per trovarsi proiettato in un mondo “che sa tutto”. Lo costrinsero a cambiare il titolo e ad aggiungere il ritornello “ciao amore ciao”, che non c’entrava niente, per renderla più sanremese, orecchiabile, vendibile. Noi che amavamo Tenco restammo perplessi al primo ascolto: non riconoscevamo l’autore di tante belle poesie, ultima tra tutte quella che accompagnava la sigla televisiva di Maigret: un giorno dopo l’altro che tutti canticchiavamo e strimpellavano alla chitarra, ripetendo il semplice arpeggio fatto di tre accordi e cercando di imitare la sua voce bella e dura da uomo adulto. Sì, fu un vero suicidio, da disperati, andare a confrontarsi con le pessime performances di Modugno (Sopra i tetti azzurri del mio pazzo amore), di Gian Pieretti (o Gianpieretti? Pietre) e via discorrendo, con una canzone in cui sicuramente neppure lui credeva. La presentò la sera del 27 gennaio e fu subito bocciata, ed era quello che Luigi voleva, e gli permise di estrarre la pistola dalla valigia e fare la sua uscita, quasi tra le braccia di Dalida e del giovane barbuto Lucio Dalla, che invece aveva già imparato a muoversi nell’ambiente della discografia italiana.

Per chi ama fare un tuffo indietro, per capire l’orrore di quei giorni, abbiamo preparato tre estratti di Epoca che rispecchiano puntualmente la sensibilità dell’opinione pubblica, prima durante e dopo quei drammatici giorni. Non manca l’allusione al numero 17, casualmente il numero d’ordine della manifestazione in quell’anno, né i tentativi di liquidare con un po’ di psicologia fai-da-te la spinta all’annientamento del giovane cantautore. Evidentemente troppo sensibile, evidentemente disadattato. (Mister X)

Anni ’80

M-Melato-1982

Ci è stata richiesta recentemente una ricerca su Epoca dei primi anni ’80. È stata una buona occasione per sfogliare alcuni fascicoli e fare un piccolo viaggio nell’Italia di trent’anni fa. Prendendo in esame per esempio il primo numero del 1982, si scoprono i lussi di Cortina d’Ampezzo ma ancora le atrocità, purtroppo, delle Brigate Rosse. Sono i tempi di Lec Walesa e di Solidarnosc, del giovane Papa polacco, di Craxi e di un tunnel della recessione, dal quale sembra che come al solito stiamo per uscire. Mariangela Melato spopola negli Usa e lo skipper Cino Ricci prepara la sua America’s Cup su barche da sogno. Liz Taylor è al suo settimo matrimonio ma, sinceramente, non li dimostra. Il tutto in circa 100 pagine patinate e illustrate con la solita qualità impeccabile delle foto di Epoca… Vai alla pagina dell’archivio.

Sfoglia il fascicolo dell’8 gennaio 1982

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Da Sardegnasopratutto un’intervista con Philipe Daverio

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“Philipe”, per gentile concessione di cucumeu.eu

15 luglio 2014. Basta Ilva e Melfi. L’Italia deve monetizzare il suo patrimonio culturale. Daverio suggerisce a Renzi un ministero ad hoc. Tutte le strade, da due anni, sembrano portare a Berlino, città europea più visitata di Roma. E conducono anche al Louvre che stacca 10 milioni di biglietti l’anno, quasi come tutti i musei italiani insieme. Arrivano certamente alle Canarie pronte a ospitare 75,4 milioni di pernottamenti in 12 mesi contro i sei della Sicilia. Per le statistiche non è insomma solo Pompei a crollare, ma l’intero sistema del turismo italiano a essere ripiegato su se stesso… Continua a leggere

Le Aquile

Un breve racconto di Giuseppe Dessì, pubblicato nel 1939 su un settimanale italiano

“Non so più chi avesse portato allo zio Michele i due uccellacci che furono posti in una stia da polli sotto i portici. Non erano, per me e per Paolo, una cosa nuova; tutt’altro: di rapaci ne avevamo visto, a Norbio, abbattuti dai porcari o dai pastori di casa nostra e appesi all’uscio di cucina, o appollaiati su qualche albero lontano o su qualche roccia, oppure altissimi, quasi immobili sotto le nuvole grigie.

Questi nella stia non erano più grandi di un pollo, ma la ferocia spirava da tutte le loro penne irte, tanto che, anche senza la rete metallica, nessuno avrebbe osato toccarli. Seduti sui talloni, noi passavamo lunghe ore davanti a quella gabbia, e gli altri ragazzi con noi…” Scarica il PDF

Cattive compagnie

Se ci si concentra, importa poco ciò che si fa; le cose importanti, così come quelle poco importanti, assumono una nuova dimensione, perché hanno la nostra completa attenzione. Per imparare la concentrazione è necessario evitare, se possibile, la conversazione banale, vale a dire non genuina.
Se due persone parlano della crescita di una pianta che entrambe conoscono, o del sapore del pane che hanno appena gustato insieme, o di una comune esperienza di lavoro, tale conversazione può essere pertinente, ammesso che esse sentano quello di cui parlano e non vi si dedichino in modo astratto; d’altra parte una conversazione può svolgersi su temi politici o religiosi, e tuttavia essere banale; ciò si verifica quando le due persone parlano con “clichés”, quando i loro cuori non partecipano a ciò che dicono.
Dovrei a questo punto aggiungere che così come è importante evitare conversazioni banali, è necessario evitare cattive compagnie. Per cattive compagnie non mi riferisco solo a gente cattiva, viziosa o distruttiva; di quelle si dovrebbe evitare la compagnia perché la loro influenza è velenosa e deprimente. Mi riferisco soprattutto alla compagnia di persone amorfe, di gente la cui anima è morta, sebbene il corpo sia vivo; di gente i cui pensieri e la cui conversazione sono banali; che chiacchiera anziché parlare, e che esprime opinioni a “clichés” invece di pensare.
Ma non è sempre possibile evitare la compagnia di simili persone, e neppure necessario. Se non si reagisce nel modo scontato – vale a dire con clichés e banalità – ma direttamente e umanamente, spesso si scoprirà che tali persone muteranno il loro contegno, aiutate dalla sorpresa effettuata dallo shock dell’imprevisto.

(Erich Fromm: “L’arte di amare”)

I conformisti

La scrittrice Alba de Céspedes collaborò per molti anni con Epoca. Curava una rubrica di posta. Ovviamente lo faceva in modo originale, con grande eleganza ma anche con determinazione, insomma in modo certamente non conformista. A proposito di conformisti, ecco una lettera del ’58 e la sua risposta (notare la citazione di Dostojewski):

Nella Sua rubrica Lei parla con ironia dei «conformisti», così definendo – mi pare di comprendere – coloro che si attengono a norme di vita tra­dizionali che vorrebbero tra­smettere intatte ai loro figli come le hanno ricevute dai lo­ro genitori e questi dai propri. A queste persone, che Lei sem­bra apprezzare poco, va invece la mia piena solidarietà. Sono convinto che se il mondo fos­se in mani loro sarebbe gover­nato saggiamente e non an­drebbe, come purtroppo mi pa­re stia velocemente andando, allo sfacelo. (ABBONATO, NAPOLI)

I conformisti non possono governare saggiamente, come crede questo lettore, perché, vi­vendo del passato, non com­prendono il presente né intui­scono il futuro com’è necessa­rio che facciano quelli cui è affidato il destino di un popolo. Il rispetto per le tradizioni che ci sono state trasmesse, e del­le quali sentiamo la responsa­bilità, si dimostra nutrendo le stesse preoccupazioni morali dei nostri genitori, ma risol­vendole nei modi e con i siste­mi propri del nostro tempo. Ed è soprattutto all’insegnamento del passato che verremmo me­no, seguendo delle norme su­perate.

La più sorprendente capaci­tà dei  conformisti è, infatti, quella di credere che oggi sol­tanto   si   compiano profondi mutamenti sociali e del costu­me, ignorando quelli avvenuti in passato e che si sono dimo­strati costruttivi anche se, al­lora, avevano apparenza di di­struzione. Se il mondo fosse stato retto da coloro «che si attengono a norme di vita tra­dizionali che vorrebbero tra­smettere intatte  ai  loro figli come le hanno ricevute dai lo­ro genitori e questi dai pro­pri», oggi un uomo potrebbe ancora includere nel suo patri­monio il valore rappresentato dal numero dei propri schiavi, come potrebbe ancora costrin­gere la propria figlia a pren­dere il velo od a sposarsi con un uomo che le è odioso. Per opera di costoro non sarebbe certo avvenuta, in Francia, la rivoluzione del 1789, che pure ha affermato i diritti dell’uo­mo, né,  intendendo continuare vivere come i loro padri, essi avrebbero   approvato la rivoluzione   morale   e sociale operata dal Cristo; anzi, si sa­rebbero rassicurati vedendolo crocifisso. I conformisti trova­no comodissimo godere i pri­vilegi che le generazioni precedenti   ci   hanno assicurato ma si  rifiutano  di compiere quei sacrifici,  quegli adatta­menti a difficili condizioni nuove, che i progressisti del passato hanno compiuto in loro favore. Si accontentano di criticare ogni sistema nuovo (a meno che ne traggano un van­taggio pratico immediato) o­stentando di confidare soltan­to in quelli già noti, senza rie­saminarne il valore assoluto né l’attualità. «Possiedono una enorme quantità di idee bell’e pronte, come ceppi per l’in­verno» dice Dostojewski «e contano seriamente di poter vivere su di esse per mille an­ni». Non si rendono conto che bisogna sempre preparare nuo­vi ceppi, tagliandoli noi stessi faticosamente, e che questi, essendo ancora freschi, sul principio non possono dare ca­lore.

Tuttavia, grazie al loro cimi­tero di idee, essi riescono per­sino a sembrare intelligenti, come sembrano saggi coloro che in ogni occasione enuncia­no proverbi; e ciò fa si che, generalmente, la loro miopia, la loro boriosa vacuità, la loro indifferenza verso l’evoluzione umana, invece di essere sen­z’altro considerata una dan­nosa manchevolezza, venga ri­spettata come una rassicuran­te virtù.

(A. de Céspedes)

Vir, Homo?

Da Epoca, agosto 1977Uomo-manichini

“I latini avevano due termini per definire l’uomo: uno ammirativo, vir; l’altro quasi spregiativo, homo. Col passar dei secoli il vir s’è perso. Ma sono rimasti l’aggettivo «virile» e il sostantivo «viri­lità». Virile, secondo il dizionario più dif­fuso: «di o da uomo, in contrapposto a femminile o bambinesco. Virilità è l’età dell’uomo maturo, quando ha la pienezza delle forze e del vigore d’animo». Virilità, oggi, è un termine desueto, quasi ambiguo. E tuttavia non si fa che discutere dell’ uomo: non è chiaro il termine per defi­nirlo, non è chiaro il ruolo che gli com­pete. Se è vero che la donna cerca una nuova dimensione, l’uomo sembra aver totalmente smarrito la sua. Qualche set­timana fa, su Epoca, sei uomini famosi hanno discusso della donna. Questa volta quattro donne, altrettanto note, discutono dell’uomo d’oggi. I punti d’osservazione sono di­versi. Ida Magli, antropologa, ritiene che l’uomo stia astu­tamente volgendo a suo favore tutti gli sforzi e­mancipativi della donna; Augusta Lagostena Bas­si, avvocato, ed Emma Bonino, deputato radi­cale, affermano che il «maschilismo» riaf­fiora anche tra i pro­gressisti; Natalia Ginzburg, scrittrice, pen­sa che dovrebbero es­sere proprio le don­ne a scoprire come sarebbe giusto e bel­lo che gli uomini fos­sero(scarica in PDF l’estratto dell’articolo)

Non si chiamava ancora ludopatia ma…

Testatina-1953-r

Testatina-1953-rIn una delle sue risposte ai lettori, nella rubrica Dalla parte di Lei che curava per il settimanale Epoca, Alba de Céspedes si trovò ad affrontare un problema che recentemente è tornato di grande attualità: quello del vizio del gioco, che ora viene affrontato e curato proprio come una patologia o una dipendenza. Ecco la sua risposta a due lettere disperate (era il 1955):

Il vizio del giuoco è tra tutti il più difficile da superare anche perché, in generale, chi è dedito ad esso non ha un la­voro, una attività, che susciti in lui un interesse più forte di quello. Un uomo che abbia abbandonato la famiglia per una donna può tornare ad essa se l’amore finisce o lo delude né più aver voglia di ricomin­ciare, ma il giocatore, al con­trario, è dalle sue stesse delu­sioni e sconfitte incitato a con­tinuare. Il rimorso di aver per­duto ciò che possedeva, e che era necessario alla famiglia, è la scusa che egli prende per riaccingersi continuamente al tentativo di rifarsi; e in que­sto s’accanisce fino a perdere tutto ciò che possiede per crol­lare poi, inerme, nella dispera­zione. Quindi sottrarre al gio­catore i capitali che ancora possiede è, spesso, il solo modo per impedirgli di continuare: soprattutto perché ciò lo priva del credito che egli riscuote presso i compagni di giuoco i quali immediatamente si disin­teresseranno di lui, sapendolo incapace di pagare. Chi paga i debiti di un giocatore intende, col proprio sacrificio, salvare l’onore di lui; e ciò può essere giustificabile verso colui che una volta, per debolezza, ha commesso un inconsueto erro­re. Ma chi giuoca continua­mente, distruggendo il benesse­re della propria famiglia, è un irresponsabile. E quindi – co­me i pazzi, come tutti coloro che sono dominati da un vizio, da una mania – non può più essere responsabile del proprio onore. Tanto meno possono es­serlo quelli che della sua irre­sponsabilità sono le vittime.

Il dovere di una donna in casi come questi non può es­sere quello di rimanere accan­to al marito; come non lo sa­rebbe quello di salire, con i propri figli, sul rogo in cui bru­cia il cadavere di lui. Il dovere di ogni creatura umana è in­nanzi tutto quello di difendere la propria dignità e il benesse­re di coloro che, indifesi e in­nocenti, a lei sono affidati. In casi simili a quello della let­trice calabrese mi pare che la separazione sia più che un di­ritto, un dovere: impostole an­che dalle sue responsabilità di madre. Cosi come una donna lasciata sola ed esposta a tutti i pericoli della solitudine ed a quelli dell’indigenza per sé e per i propri figli – come la gio­vane lettrice romana – ha diritto di cercare nel lavoro le proprie soddisfazioni, anche per essere pronta a sostituirsi, un giorno, presso i figli, a un pa­dre dimentico delle proprie re­sponsabilità.

Ed ecco un sunto delle due lettere, ovviamente anonime:

Ventiquattrenne, sposata da­ sei anni, ho due bambine. Mio marito, ventisettenne, col qua­le mi sposai per vero amore, si è dato totalmente al giuoco delle carte, passando molte ore diurne e notturne in compa­gnia di uomini attempati che alimentano il suo vizio. Io, fi­nora, ho vissuto solo per lui e, pur avendo il diploma magi­strale e gran voglia di far scuola, ho rinunziato all’inse­gnamento per compiacerlo. Ora, vedendo che il suo affetto si spegne e che, senza ascol­tare le mie proteste e preghie­re, egli vive fuori della fami­glia, per non soffrire del suo comportamento e trovare un interesse superiore, vorrei tor­nare all’antica vocazione. Mi domando se farei bene. (EADAM, ROMA)

Mi sono sposata a sedici an­ni con un uomo che amavo e che, presto, dimentico di me e dei nostri due figli, smise di lavorare per dedicarsi comple­tamente al giuoco. Ha perduto alcuni beni che possedeva, e di ciò che possedevo io rimane so­lo la casetta in cui viviamo e un piccolo podere. Più volte gli ho annunziato la mia decisio­ne di separarmi; egli mi ha supplicato di rimanere per sal­varlo, promettendo di cambia­re; ma, dopo qualche giorno, tornava al suo vizio irresisti­bile. Dispero, perciò, di salvar­lo, ma vivo in un paese in cui la donna per tradizione deve tutto accettare e sopportare dal marito, sicché mi dicono che il mio primo dovere è quel­lo di rimanere con lui aspet­tando che cambi. Dopo annose esperienze io temo che presto anche la casetta e il podere lasciatomi da mio padre segua­no la sorte del resto e che i miei bambini non abbiano più da mangiare. (LETTRICE, CATANZARO)